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sabato 24 marzo 2018

Recensione Narrativa: Lo Strano Caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Robert L. Stevenson.



Autore: Robert Louis Stevenson.
Anno: 1886.
Titolo OriginaleThe Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde.
Genere: Fantastico - Mad Doctor.
Editore: Vari.
Pagine: 96..

A cura di Matteo Mancini.
Capolavoro assoluto, per contenuti, della narrativa fantastica. Un'opera capace di "debordare" dall'ambito fantastico per andare a ispirare la scienza che studia la mente, dalla psicanalisi freudiana alla moderna criminologia. E' proprio Robert Louis Stevenson che nel 1886, all'età di ventisei anni e tre anni dopo la stesura del celebre L'Isola del Tesoro, getta le basi della futura psicanalisi, anticipando sia la tripartizione di Freud indicata nel saggio L'io e l'Es (1922), sia la più moderna criminologia, proponendo (seppur in chiave irrealistica) il primo vero caso di quello che sarà definito un disturbo dissociativo dell'identità (chiamato in causa, tanto per citare un evento di cronaca nera a noi vicino, anche nel caso Franzoni).
"L'Uomo è un puro sistema di soggetti diversi, incongrui e indipendenti tra di loro" afferma il Dottor Jekyll, uno dei tre personaggi principali del romanzo di Stevenson. "L'uomo non è unico, ma duplice e il conflitto delle due nature ha luogo perché entrambe formano l'uomo... E' la maledizione dell'umanità che questi due alieni fardelli siano legati strettamente insieme, che nel ventre dilaniato della coscienza due gemelli contrapposti siano ingaggiati in una lotta senza respiro." L'errore che commette Jekyll è quello di cercare di superare la dualità separando le due nature piuttosto che sintetizzarle, per dirla alla Kant, come poi farà Freud in un idele "scontro" tra tesi e antitesi. Freud parlerà di Super io da una parte, ovvero l'insieme dei comportamenti cui tendere per influenza dalle regole morali e giuridiche di un dato periodo storico/sociale, ed Es dall'altra, vale a dire le pulsioni inconsce orientate alla soddisfazione del piacere. Una dualità che viene risolta dall'Io, cioè la parte conscia dell'individuo che media tra il Super Io e l'Es dando luogo a un comportamento compromissiorio tra le varie istanze contrapposte. Dunque vediamo come Stevenson intuisca per primo, possiamo dire, l'esistenza di un io inconscio in potenziale contrasto con quello conscio.
Nicoletta Della Casa Porta, nell'introduzione al romanzo, giustamente scrive che "la salvezza non può consistere nel privilegio assoluto accordato a questa o a quella componente in contrasto, ma solo dall'accettazione onesta e tollerante di tutte le parti, con l'obiettivo di convogliare le energie nel progetto di diventare se stessi." In Jekyll, ma non solo lui, viene a mancare l'Io freudiano. Senza scendere nella sinossi del romanzo, praticamente conosciuto da tutti, sia Jekyll che l'avvocato Utterson, colui che poi risolverà il caso e che è il vero protagonista della storia, incarnano il classico modello del rispettabile rampollo della borghesia vittoriana, personaggi che, a loro modo, rinunciano a plasmare una propria personalità per compiacere la società ed essere da questa riconosciuti quali personalità degne di rispetto. Se Utterson frena i propri istinti, le proprie passioni e i propri desideri per poter aderire perfettamente agli stilemi del cittadino modello, Jekyll contiene la propria parte oscura concedendosi scappatelle ed eccezioni alla regola ma sempre stando lontano dai riflettori (arriverà persino a godere dei delitti di Hyde perché protetto dalle diverse sembianze così da cancellarle all'occorenza e proteggersi dalle conseguenze). Stevenson evidenzia così, fin dall'inizio del romanzo, una forte critica all'ormai decadente società vittoriana, una società fatta di apparenza e convenzioni retta dal valore prioritario dell'esteriorità sovrordinata all'interiorità. Il mostruoso Mr. Hyde di Stevenson diviene dunque l'emblema dell'ipocrisia di fondo che l'autore fa emergere, denudandola dalla maschera della forma, per mostrarla nella sua vera essenza e sostanza ai lettori della sua epoca. Per dirla in altri termini, Mr Hyde è la parte inconscia di ogni uomo medio, vale a dire l'insieme dei desideri e impulsi scevri da ogni freno inibitorio.
The Strange Case of Dr. Jekyll & Mr. Hyde, oltre a ruotare sul tema del doppelganger sulla scia di opere quali Memorie e Confessioni di un Peccatore Giustificato (1822) di James Hogg e William Wilson (1839) di Edgar Allan Poe, ruota proprio sulla falsità dei valori dettati dalla società inglese dell'epoca, un voler ostentare un qualcosa che nel profondo non trova corrispondenza col vero volere individuale. Potremmo definire questo come il risultato estremizzato di quel famoso patto sociale evidenziato dal filosofo Thomas Hobbes, quale rinuncia essenziale delle proprie libertà per dar luogo alla vita collettiva, "strozzando" l'istinto di sopraffazione che dominerebbe l'uomo (concetto dell'homo homini lupus). A mio avviso la vicenda singolare del Dr. Jekyll che trova il modo di far emergere il proprio lato oscuro, (il deforme e piccolo di statura Mr Hyde, in quanto castrato da quello che Freud chiamerebbe il Super Io e dunque non adeguatamente sviluppato) al fine di esorcizzarlo per liberare l'umanità dalla frustrazione figlia delle repressione delle pulsioni, si trasforma in una parabola collettiva in cui le pulsioni animalesche travolgono l'etica in quanto rifiutate e respinte, giacché metabolizzate e gestite, così da tramutarsi in un qualcosa di sempre più violento e incontrollabile guidato dall'emozione dell'ira. David Punter, nel suo Storia della Letteratura del Terrore, esprime bene il concetto scrivendo che "è stata la repressione a produrre la personalità di Hyde, da un'ulteriore negazione delle sue pretese non potrà che risultare un aumento della violenza."

Stevenson presenta il coacervo delle pulsioni alla stregua di droghe di cui l'organismo, una volta assimilate, non riesce più a farne a meno. "La parte più infima che era in me, e che a lungo aveva conosciuto la mia indulgenza e negli ultimi tempi le catene, incominciò a ringhiare reclamando una licenza" spiega Jekyll. A lungo andare, la conseguenza di quanto espresso non potrà che condurre Jekyll all'impossibilità di gestire Mr. Hyde che finirà per prenderne il posto, macchiandosi di condotte che Stevenson rivela solo parzialmente, parlando di uno scontro con bimba poi calpestata e di un omicidio per futili motivi. Anche se l'autore non menziona mai il tema, si ha quasi l'impressione che Mr Hyde sia un depravato sotto ogni punto di vista, compreso quello sessuale, un personaggio assimilabile alla futura protagonista de Il Grande Dio Pan (1890) di Arthur Machen o all'Alraune de La Mandragora (1911) di Ewers, un essere completamente votato all'egoismo e all'edonismo. Un personaggio che catturerà l'attenzione di Oscar Wilde che lo prenderà di riferimento per il suo capolavoro Il Ritratto di Dorian Gray (1890), dove, ancora una volta, avremo la scissione tra l'apparenza amata dalla società (bellezza) e la realtà celata e nascosta in luoghi non accessibili (il quadro che intrappola l'anima corrotta). Interessante sul punto il gioco fatto da Stevenson nella scelta dei nomi. Mr. Hyde, ovvero il signor nascosto (in inglese to hide significa nascondere), e Dr. J(e)Kyll ovvero il Dr. Io Uccido sempre traducendo dall'inglese, a testimoniare probabilmente che il vero mostro è l'ipocrita Jekyll e non il suo alterego che è coerente con sé stesso. Jekyll gode delle azioni di Hyde, è lui a innescarlo ed è poi ancora lui che vorrebbe poi sottrarsi dalle conseguenze attribuendo la colpa all'altra persona. Ditemi secondo voi chi, tra i due, è più censurabile...

Dettaglio della locandina della
trasposizione cinematografica
del 1931 affidata alla regia di
Robert Mamoulian.

Un terzo tema trattato da Stevenson, dopo quello della critica alla società vittoriana e quello relativo alla dualità (bene-male) della coscienza umana, è quello incentrato sulla preoccupazione relativa al rischio di un progresso scientifico incontrollato. Se da una parte infatti la scienza può garantire un miglioramento delle condizioni di vita, dall'altro, se sprovvista di una guida deontologica, può portare a conseguenze devastanti. Il Dr Jekyll, infatti, riveste il ruolo di quello che, sulla scia del Dr. Frankenstein di Mary Shelley e successivamente del Dr Griffin de L'Uomo Invisibile (1897) di Wells, può essere definito un mad doctor dato che parla di "medicina trascendentale" e viene definito dai colleghi come "diventato stravagante, con idee strane e dedito a certi sproloqui privi di fondamento scientifico". A mio avviso in questo romanzo la portata scientifica, caratterizzata dall'utilizzo di una speciale pozione in grado di scindere la parte maligna propria dell'utilizzatore e dargli un suo corpo, è meramente incidentale e funzionale a mettere in scena un ragionamento legato sugli altri due temi che sono quelli portanti dell'opera. Peranto, questo terzo tema è indubbiamente di portata inferiore rispetto agli altri due.

C'è addirittura chi (arditamente), come David Punter, intravede un quarto tema accennato da Stevenson e incentrato sulla paura della regressione della specie umana nella scala evoluzionistica (aspetto che sarà trattato da Wells ne La Macchina del Tempo). Sulla base degli studi di Darwin, in voga nel periodo e basati sul fatto che l'evoluzione è una scala, c'è chi ha visto nella deformità e nel procedere scimmiesco di Mr Hyde il rischio concreto di una possibile parabola discendente nella scala evolutiva da parte della razza umana. A mio avviso si tratta di un'interpretazione affascinante, ma probabilmente forzata. La bruttezza di Hyde è, in realtà, una metafora visiva della malvagità che si contrappone alla bontà solitamente incarnata dalla bellezza, un po' come fara Wilde per il suo Dorian Gray.

Un cenno merita la struttura dell'opera. Stevenson opta per un romanzo breve, potremmo definirlo addirittura un racconto lungo. Circa cento pagine, molto scorrevoli e presentate (sotto il versante della narrazione) da diversi punti di vista e con un'atmosfera da noir. Ambientazione urbana, nel quartiere di Soho, prevalentemente nottura con la figura di Jack lo Squartatore (entrerà in azione due anni dopo l'uscita del romanzo) che sembra di continuo prossima a uscire da dietro ogni angolo. Pur trattandosi di un racconto del terrore (bellissima la scena in cui si descrive la trasformazione da Hyde a Jekyll) con venature fantascientifiche, Stevenson sceglie la struttura del giallo, come dimostra l'epilogo con il manoscritto del dottore che rivela tutti i retroscena (soluzione classica del genere). Possiamo pertanto definire lo scozzese un antesignano della moderna narrativa gialla, basti ricordare che Uno Studio in Rosso di Conan Doyle, primo romanzo della serie Sherlock Holmes, uscirà l'anno successivo.
Il racconto viene portato avanti come una vera e propria indagine, al cui centro vi è l'avvocato Utterson e non Jekyll, relegato al ruolo di oggetto dell'indagine. L'autore scozzese, a mio avviso, sceglie questa via perché vuole caratterizzare a dovere Utterson al fine di rendere manifesta la critica alla società vittoriana. I personaggi del romanzo sono tutti soggetti che si trincerano dietro una facciata pubblica che è ben distinta dalla loro natura privata. Utterson ("Sono d'accordo col peccato di Caino, che mio fratello vada pure all'inferno se così vuole" afferma all'inizio) è una sorta di cavallo costretto all'immobilità per l'azione del morso serrato in bocca. Vorrebbe fare tutta una serie di cose, ma un po' se ne vergogna (teme il giudizio altrui) e un po' si rende conto che non può farle senza perdere una certa rispettabilità. Jekyll, che si rende conto di avere certi impulsi, cerca di fare altrettanto, tentando di esorcizzare il proprio subinconscio con la convinzione, evidentemente errata, di poterlo controllare (ne sarà travolto).

Lo stile è leggero, scorrevole e di pronta soluzione. Stevenson impregna il romanzo di importanti contenuti innovativi, offrendo spunti di riflessione che finiranno per coinvolgere medici, psichiatri e criminologi. Fa tutto questo non per caso, ma per un'intuizione su cui sembra pronto a scommettere. Fa dire a Jekyll che "altri seguiranno, altri mi sorpasseranno in questa direzione, e io posso osare di prevedere che infine l'uomo verrà riconosciuto come un risultato di molteplici, incongrue e indipendenti entità". La profezia si avvererà quattro decadi dopo con Sigmund Freud che getterà le basi della psicanalisi. Lo studioso naturalizzato austriaco ribadirà quanto già affermato ne The Strange Case of Dr. Jekyll & Mr. Hyde, a dimostrazione che la narrativa fantastica è tutt'altro che una fuga dalla realtà essendo invece una lente attraverso cui guardare la realtà stessa (cfr Luca Rasponi).

In conclusione possiamo dire che Lo Strano Caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde è un romanzo da leggere, una vera e propria pietra miliare del genere fantastico e non solo, un'opera capace di creare un archetipo che è entrato nella cultura e nei modi di dire, interessando cinema, mondo dei fumetti e indagine criminologica. Stevenson ci suggerisce che il male, qua chiamato spesso con termini quali "diabolico", "Satana" e "Inferno", non è un qualcosa di esterno o di trascendente, bensì una faccia di una duplice medaglia che è propria di ciascun uomo. Il tentativo di esorcizzarlo operato da Jekyll si trasforma in un'evocazione proprio perché non si può pretendere di cancellare una delle due facce della moneta pensando così di abbellirla nel suo complesso. Chiudo citando una frase ricordata all'inizio del film Il Medaglione Insanguinato e attribuita a un autore anonimo: "Per secoli teologi, filosofi, e anche poeti hanno frugato l'universo alla ricerca di una prova dell'esistenza del Demonio. Sarebbe bastato guardare in fondo alla loro anima." Quale miglior modo per congedarci da questa recensione...?

ROBERT L. STEVENSON

"Quell'uomo non aveva un aspetto umano, sembrava uscito fuori dall'inferno."

domenica 18 marzo 2018

Recensione Narrativa: L'UOMO INVISIBILE di Herbert G. Wells



Autore: Herbert George Wells.
Anno: 1897
Titolo Originale: The Invisible Man: a Grotesque Romance..
Genere: Fantascienza/Fantastico - Mad Doctor.
Editore: Tascabili Economici Newton.
Pagine: 250..

A cura di Matteo Mancini.
Terzo grande classico nato dalla penna di Herbert G. Wells, dopo La Macchina del Tempo (1895) e L'Isola del Dr Moreau (1896), forse inferiore di qualità rispetto ai precedenti ma comunque tale da generare un vero e proprio sottofilone. Il trentunenne autore del Kent, di cui abbiamo già parlato in occasione della recensione del romanzo incentrato sulla figura del Dr Moreau, insiste sulla tematica Mad Doctor, proseguendo nel solco precedentemente scavato da Mary Shelley, con il suo Frankenstein (1817), e da Stevenson con Lo Strano Caso del Dr Jekyll e Mister Hyde (1886). Da Mary Shelley arriva la caratterizzazione di un giovane scienziato dedito agli sperimentalismi, che si estranea dalla vita sociale per seguire i suoi folli quanto geniali studi, così da abbandonare ogni affetto familiare (la morte del padre passa quale evento di scarso conto) e da vivere in funzione dello studio. "Non sentivo d'essere ormai solo, di aver rinunciato al mondo per avventurarmi in un universo di desolazione. Avvertivo la perdita del comune sentimento della solidarietà umana... Ecco le cose che conoscevo e amavo: i miei apparecchi e gli esperimenti approntati che attendevano di essere portati a termine." Così racconta Griffin, lo scienziato che ha messo in pratica i propri studi diventando invisibile dopo esser riuscito a far svanire un pezzo di stoffa e poi un gatto. Una caratterizzazione egoistica, a tratti asociale, che è ricalcata sul profilo psicologico del dottor Frankenstein di Shelley. Da Stevenson arriva invece la doppia anima del protagonista ovvero uno scienziato geniale che diviene un vero e proprio mostro. Non accettato dalla società (tremenda caratterizzazione plasmata da Wells, fatta di bigotti, venali, ottusi, codardi che si fanno forti solo in gruppo, ignoranti e mondani), finisce per creare scompiglio nelle vie inglesi di fine ottocento macchiandosi di omicidi e brutalità più o meno gratuite.

Wells dunque prosegue sul versante della fantascienza ma vira sempre più all'horror, qua a mio avviso prevalente rispetto al supposto tentativo di spiegare in modo ragionevole le scoperte dello scienziato. The Invisible Man assume pertanto la consistenza di una bizzarra ghost story in cui il fantasma di turno è sì invisibile, ma terribilmente materiale. Lo si può toccare e lo si può ferire, così come lui stesso può infliggere pugni ai passanti e inquietarli col suono della propria voce, rendendo sempre più flebile l'equilibrio mentale delle vittime. Una trovata per l'epoca piuttosto originale, tale peraltro da dar via a un vero e proprio sottogenere, che l'autore inglese stempera con un taglio ironico e surreale che rende il romanzo, nella sua tragicità, per lunghi tratti grottesco e altamente ironico. Emblematiche le supposizioni di alcuni grezzi personaggi locali che cercano di ipotizzare i problemi del protagonista, che va in giro protetto da sciarpe tenute in modo da occultare l'intero volto, sormontato da cappelli e occhiali da sole. "Quell'uomo è un pezzato: bianco qua e nero là, a chiazze. E se ne vergogna. E' una specie di mezzosangue... Ne avevo già sentito parlare. E poi nei cavalli, lo sanno tutti, è una cosa che succede comunemente." Ancora umorismo nero quando l'uomo invisibile si trova al cospetto di una manifestazione dell'esercito della salvezza che canta un pezzo che si intitola "Quando vedremo il suo volto?", mentre dei ragazzotti notano delle orme fangose che si dipingono a terra sulla strada e avanzano senza dar mostra del corpo che le imprime a terra. Da segnalare poi la continua sconfessione delle credenze popolari che vengon puntualmente disattese dai fatti, pazzeschi sì eppure terribilmente oggettivi come mostrano gli occhi increduli degli osservatori e tali da generare credenze ancor più folli di quelle reali: "ma che storia è questa? Che io sia dannato se questa faccenda non puzza di stregoneria... Ci vuole un bel ferro di cavallo per proteggersi da tipi come lui... Un uomo senza testa... Invisibile eh? Chi mai ha sentito una cosa simile?"

I temi che sottendono l'opera sono essenzialemente due, in perfetta linea con Shelley e Stevenson. Il primo dei due è il tema del diverso, un qualcuno che non viene accettato da una società dedita ai processi sommari, di mentalità non aperta ed egoista tanto quanto il mostro impazzito (scena clou il vicino del collega di Griffin che si rinchiude nella propria villa, ignorando le richieste di aiuto dello stesso per il timore di andarci di mezzo). Riccardo Reim scrive che "Griffin cerca e insegue cose che per gli altri non hanno alcuna importanza, perché i suoi interessi vanno al di là di quelli spiccioli della gente comune." L'interesse di Griffin è la ricerca scientifica, il superamento dei limiti umani verso un qualcosa di nuovo e mai raggiunto da nessuno. Griffin ambisce alla notorietà, al divenire un nome di riferimento nell'ambiente scientifico, non accorgendosi di ottenere l'esatto contrario. "Spesso gli eventi straordinari, che trascendono le umane esperienze, hanno sugli uomini molta meno presa che non i piccoli fatti tangibili" constata, a malincuore, l'autore. C'è chi vede in questo, ragionando a livello psicanalitico (tesi che non condivido molto), una sorta di spunto autobiografico di Wells (ci vedrei meglio un Lovecraft in una situazione del genere). Prosegue Reim scrivendo che "attraverso la diversità di Griffin lo scrittore grida la sua di diversità, esprime il suo insopprimibile disagio verso una società che fino a poco prima (del successo letterario, ndr) lo ha rifiutato in toto e che ancora deve risarcirlo a sufficienza." Griffin viene deriso, visto come un mostro e dunque isolato, costreggo alla fuga continua (un po' come il mostro di Frankenstein) fino a trasformarsi in un essere che, vedendo fallire ogni tentativo di riconquistare delle supposte sembianze umane (ovvero andare in giro vestito da capo ai piedi per proteggersi dal freddo e dalle intemperie, ma anche per comunicare con gli altri cittadini), si spoglia di ogni abito (da leggersi quale remora e freno sociale) e programma di adottare quello che lui definisce un "regno del terrore" (ovvero ritornare a quello stato naturale che Hobbes aveva visto come superato dal famoso patto sociale indispensabile per la vità in comunità). "Dobbiamo prendere una città, terrorizzarla e dominarla... Coloro che disobbediranno agli ordini saranno uccisi." Questi i progetti dell'uomo invisibile, generati da un cocktail fatto di vendetta (per esser stato rifiutato) e di onnipotenza, una sorta di corrispettivo  per il non poter più riconquistare le sembianze originarie e da addebitare a una società cattiva e menefreghista. Un'evoluzione, o involuzione, che genera l'incertezza in tutti coloro che si trovano al cospetto "del nulla", sempre ignari circa la presenza o meno del loro interlocutore, ma anche di difendersi da attacchi imprevedibili e impossibili da intercettare. Bella, al riguardo, la scena col clochard che sta per tradirle l'uomo invisibile svelando a un passante la storia dello stesso ma, mentre parla, avverte la presa di una mano sulla spalla, cambiando così discorso e sudando freddo nel sentire stringersi la presa. Un aspetto questo che si potrebbe anche ricollegare, sempre a livello psicanalitico, al tema dell'onniscenza divina e all'impossibilità di sottrarsi allo sguardo del grande assente che vede tutto ed è pronto a comminare pene (aspetto presente, se non ricordo male, ne L'Isola del Dr Moreau).
L'altro tema trattato da Wells è la condanna di una scienza priva di ogni morale, una sorta di monito per scongiurare i rischi connessi al comportamento dell'uomo che gioca a scimmiottare Dio senza porsi limiti di sorta. Frankenstein riporta in vita i morti, Moreau trasforma gli animali in umani, Griffin invece inteviene anch'egli sulla materia ma per rendere l'uomo una creatura invisibile. L'epilogo di tutto ciò non potrà che essere la ritorsione contro lo stesso dottore delle proprie scoperte. Griffin, nel tentativo di vendicarsi, finirà linciato da una folla forse più animalesca di lui. Un vero e proprio gregge di lupi travestiti da pecore che penseranno bene di eliminare il problema invece di comprenderlo e risolverlo, magari convincendo il dottore a rivelarare al mondo le proprie grandi scoperte così da diventare qualcuno, magari un luminare. Un tema attualissimo, basti vedere il film premiato con l'oscar nell'edizione di qualche settimana fa (La Forma dell'Acqua) in cui è presente un battuta del seguente tenore: "Non è importante quello che possiamo imparare da lui... ma che non imparino i nostri rivali". Anche qua il "disgraziato" di turno cercherà di allearsi con altri diversi (un barbone) o con dei colleghi che possano comprenderne il genio (e indirizzarlo), ma non gli andrà bene. "Mi sono detto: ecco, è un emarginato come me. E' proprio l'uomo che ti ci vuole..." Passaggi che, nell'esilaranza generale, rendono triste la vicenda dello scienziato e suscitano compassione e tenerezza.
L'invisibilità per Wells è allora una tragedia ("confidare il mio segreto a qualcuno avrebbe voluto dire ridurmi al rango di un fenomeno da baraccone") da cui non ci si può liberare, che perde presto i vantaggi che ne sono insiti ("Un uomo invisibile è un uomo potente") e lascia solo le controindicazioni. "Mi sentivo come potrebbe sentirsi un vedente, a piedi nudi e con indosso abiti che non facessero rumore, in una città di ciechi. Provavo un irrefrenabile desiderio di fare scherzi alla gente, di spaventarla, di dar loro manate sulle spalle, di gettare via i loro cappelli, di fare insomma tutte le pazzie che il mio nuovo, straordinario, stato mi concedeva" così Griffin spiega le iniziali sensazioni, da cui però giungeranno le difficoltà di trovare cibo, di girare per le strade senza esser additato, di parlare con un proprio simile e addirittura di mantenere la propria individualità. Come si può riconoscere una persona che non ha volto ne corpo? L'invisibilità porta inevitabilmente alla cancellazione dal registro della vita, a tramutarsi in una sorta di morto vivente o, meglio ancora, di uno spettro tangibile, l'ideale sintesi tra la tesi della vita e l'antitesi della morte per ragionare alla Kant con l'accento proprio della regione di Wells ovvero il Kent.

Un giovane HERBERT GEORGE WELLS,
ai tempi della stesura del romanzo scritto all'etè di 
31 anni.

Sul versante stilistico possiamo dire che il romanzo parte subito in quarta. Griffin è già ectoplasmatico e trova rifugio in un albergo, il Carrozza e Cavalli, per studiare un modo atto a riconquistare l'aspetto originario. Per tornare alla vita comune è costretto a ricostruirsi pezzo per pezzo, alla stregua di uno spaventapasseri con un naso da pagliaccio applicato sulla faccia, degli occhiali da sole per simulare gli occhi, un parrucchino, basette e baffi finti, un cappello che copre la fronte, guanti per avvolgere le mani e una sciarpa per occultare la bocca attorniata da fasce, vestiario che non toglie neppure a tavola o in salotto.
Romanzo breve, molto scorrevole e facile da leggere. Wells ha una prosa priva di fronzoli e leziosismi, tale da potersi definire contemporanea, da masse. L'Uomo Invisibile è un testo adatto a ogni forma di pubblico, compresi i giovani ragazzi, priva di tematiche sottintese o di ermetismi da decriptare.
Fin da subito un best seller, ha dato il là a una lunga serie di epigoni, primo tra tutti l'eccezionale La Cosa Maledetta (1898) di Ambrose Bierce, uscito appena un anno dopo e base di ispirazione per Il Colore Venuto dallo Spazio (1927) di Lovecraft. Lo scrittore americano trasla su una bestia invisibile la caratterizzazione del personaggio di Wells e mette in scena un combattimento identico a quello che contraddistingue il finale del romanzo del collega inglese, sfumando tuttavia la natura dell'essere invisibile. Lo stesso corrispettivo francese di Wells, il leggendario Jules Verne, con Il Segreto di Wilhelm Storitz (1910) ne mutuerà il tema, imitato da Renard con L'Homme au Corps Subtil (1913). Edmond Cazal scriverà addirittura un sequel apocrifo intitolato Joe Rollon, L'Altro Uomo Invisibile (1919). Un interesse così marcato da finire presto per coinvolgere anche la settima arte dapprima con traspozioni fedeli, tra le quali L'Uomo Invisibile (1933) diretto da James Whale, fino alle ispirazioni che ne "copiano" pressoché tutte le caratteristiche (l'andare in giro con vestiti e oggetti che restano sospesi in aria, l'utilizzare i poteri per divertirsi e spaventare le persone o per intrufolarsi in luoghi dove vi sono donne nude e via dicendo) con esempi a noi prossimi rappresentati da pellicole quali L'Uomo senza Ombra (2000) di Verhoeven e Il Ragazzo Invisibile (2014) di Gabriele Salvatores.

Per chiudere possiamo dire che L'Uomo Invisibile, pur se non troppo fresco per tematiche (essendo stato inflazionato dal cinema e dagli innumerevoli epigoni narrativi), resta una tappa fondamentale nello sviluppo della narrativa fantastica e dunque un romanzo capace di scrivere una pagina di questo fantastico mondo. Letto nel 2018 non impressionerà per quanto descritto, ma si tratta di un romanzo culturalmente da leggere soprattutto per chi si definisce un appassionato della letteratura del terrore e del fantastico (più che della sci-fi). Classico di un grande maestro del genere.

Scena da L'UOMO INVISIBILE del '33
di James Whale.

Scena da L'UOMO SENZA OMBRA del 2000
di Paul Verhoeven.

"Tutti provavano per lui la stessa avversione. La sua irritabilità, che avrebbe potuto risultare comprensibile a un intellettuale di città, appariva invece molto strana a quei pacifici paesani del Sussex. Il gesticolare scalmanato in cui ogni tanto lo sorprendevano; quell'incedere precipitoso... Il suo modo implacabile di respingere qualsiasi tentativo di approccio dettato dlla curiosità; il gusto per l'oscurità... Chi avrebbe potuto condividere un comportamento del genere? Quando passeggiava per il villaggio, la gente si faceva da parte, e quando era passato, i ragazzoni più spiritosi scimmiottavano il suo modo di fare misterioso, tirandosi su il bavero, incalcandosi il cappello o passeggiando nervosamente...
Perfino i bambini un po' ritardati avevano preso l'abitudine di gridargli dietro: «UOMO FANTASMA!» e poi se la davano a gambe, sentendosi tremendamente grandi."

sabato 17 marzo 2018

Recensione Saggi: STORIA DELL'ANTICRISTO di



Autore: Massimo Centini.
Edizioni: Odoya.
Anno: 2010.
Edizione Originale: Edizioni Piemme, 1996, col titolo de Il Ritorno dell'Anticristo.
Genere: Saggistica Religiosa/Esoterica.
Pagine: 318.
Prezzo: 18,00 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Il prolifico Massimo Centini, antropologo torinese classe '55 che spazia dalla criminologia (La Sanguinosa Storia dei Serial Killer) alla religione passando per il mito e le credenze popolari, si lancia in un'indagine coraggiosa quanto specifica. La sua è una vera e propria inchiesta, come lui stesso la definisce, volta a gettare luce sulla figura apocalittica, più leggendaria che religiosa, dell'anticristo. "Cercheremo in modo laico e pratico di seguirne le tracce storico-antopologiche presenti nelle fonti, ivi comprese quelle apocrife", così presenta questo progetto uscito per la prima volta nel 1996, col titolo Il Ritorno dell'Anticristo per Edizioni Piemme, e riproposto nel 2010 da Odoya con il più calibrato titolo di Storia dell'Anticristo. Si tratta infatti di una vera e propria storia dell'interpretazione data a questa figura dai teologici e dai profeti nel corso degli anni, una figura che, come specifica più volte Centini, non è squisitamente legata alla tradizione giudaico-cristiana ma trova conferme in altre religioni con delle similitudini assai evidenti e marcate.

Volume indubbiamente colto, non sempre facile da seguire, che cerca, oltre a presentare le varie figure politico-religiose che nel corso degli anni, da Antioco IV Epifane e Nerone fino a Hitler (figura quest'ultima, a mio avviso, più legata per molteplici motivi al protagonista del volume, tuttavia non approfondita), sono state riconosciute (evidentemente in modo fallace) quali l'anticristo, di fare un vero e proprio profilo del personaggio, prendendo come base il testo vergato da San Giovanni. Così abbiamo capitoli dove si analizzano le fonti che ne hanno plasmato la genesi, la provenienza etnica, il suo aspetto (chi lo vorrebbe seducente e dai tratti umani, chi lo vedrebbe come un qualcosa di organico e complesso, chi addirittura un extraterrestre), il suo potere, il modus operandi grazie al quale salirà al trono, i suoi adepti primo tra i quali il falso profeta chiamato a preparargli il terreno con attività di proselitismo, il mistero del 666 indicato quale numero di riconoscimento e la grande battaglia finale, unito al dragone (ovvero Satana), al citato falso profeta e ai re del mondo, sulla montagna di Meghiddo (la c.d. Harmaghedon) per aver ragione una volta per tutte dei giusti (soccomberà per l'intervento diretto di Gesù). In mezzo a tutto questo, Centini apre infinite e lunghissime parentesi dove affronta molteplici argomenti di confine, dalla demonologia alla stregoneria (compresi i modi in cui essa è stata combattuta dall'inquisizione), presentati quali background funzionale a spianare l'avvento della Bestia e del suo seguito di morte. Non manca poi un capitolo dedicato alle profezie più o meno laiche, tra queste spiccano le visioni di Nostradamus, applicate a questa figura, così come la convinzione di vedere nel papato l'ambito di proliferazione dell'anticristo. Su quest'ultimo tema non si contano le digressioni di Centini che parla di Martin Lutero, testimoni di Geova, Mormoni e altri religiosi che hanno operato una scissione da Roma vedendo in essa un pericoloso discostamento dai valori cattolici iniziali. L''autore spende poi parole infinite sul millenarismo, ma soprattutto sull'isteria dell'anno 1.000, tempo in cui la convinzione che si sarebbe assistito alla fine del mondo divenne cosa pressoché certa, a seguito dell'interpretazione, fin troppo letteraria, di alcuni passaggi della Bibbia. Diventa dunque facile diagnosticare un'ossessione storica, praticamente infinita e ricorrente, se vogliamo quindi atavica, legata alla parte della Bibbia che va sotto il nome di Apocalisse, vista come monito e al tempo stesso passaggio obbligatorio per accedere alla grazia ascetica. Ecco allora che l'avvento dell'anticristo può essere persino letto, più che un incubo da scacciare, quale provocatorio desiderio da accogliere, forse perverso ma necessario e imprescindibile per avviare il processo finale che porterà all'apertura delle porte del Paradiso cui accedere non da trionfatori bensì da umili servitori. Veder materializzare i timori, infatti, comporterebbe al tempo stesso aver certezza della vittoria finale e di quanto a essa è connesso ma, attenzione, non quale ricompensa (altrimenti si cadrebbe nell'ambito d'azione dell'anticristo per effetto di un'adesione legata a un discorso premiante) bensì quale conferma della correttezza del proprio operato e della propria ideologia.

Un volume non facile, lo abbiamo premesso, non da affrontare ridendo e scherzando (credo che ci sia ben poco da ridere, lo insegna la storia recente), anche perché i toni con cui Centini lo confeziona sono seri e al tempo stesso appassionati, per niente votati allo spettacolo. Lo studioso piemontese focalizza gli aspetti basilari, ritornando più volte sui punti centrali della tematica che ha in San Giovanni la sua primaria bussola orientativa (non la sola). Un modo di esporre il tema, se vogliamo, ripetitivo, ma al tempo stesso responsabile. A fine lettura difficilmente non si saranno comprese le caratteristiche di questo essere diabolico, un vero e proprio lupo travestito da agnello, che cercherà di conquistare le folle con una lunga serie di prodigi, che saranno visti quali miracoli pur essendo illusori (parentesi di Centini per mettere in evidenza la differenza tra il miracolo di origine divina e l'azione prodigiosa del maligno), venendo così riconosciuto come un vero e proprio Dio in terra ("Chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?" Sembra di sentire Mussolini commentare l'operato della Germania Nazista, ndr) così da portare verso la perdizione il suo seguito con parole e promesse che suonano di bestemmia, garantendo agli adepti piaceri e vantaggi materiali a totale discapito degli spiriturali. Un'ascesa rapida e improvvisa, tre anni e mezzo dicono le scritture, che diverrà sempre più diabolica e depravata fino allo scontro finale che aprirà un'era millenaria di pace al cui termine avrà luogo lo scontro decisivo tra Dio e Satana (di nuovo liberato, non si capisce bene se col supporto dell'anticristo e del falso profeta) prima della fine del mondo e del giudizio universale.

Torino, Piazza Statuto,
chi è colui che domina l'ascesa?
""E vidi dal mare salire una bestia che aveva dieci corna e sette teste, 
e sulle sue corna dieci diademi, e sulle sue teste nomi blasfemi."

La Storia dell'Anticristo non è dunque un testo per tutti, figurarsi un lettore medio a cui sconsigliamo l'acquisto. Diviene invece uno spunto molto utile di riflessione, ivi compreso sul versante antropologico e sociologico. Centini fa comprendere quanta importanza un testo quale l'Apocalisse abbia avuto, e attenzione lo ha tuttora, nella storia dell'umanità, con ripercussioni che hanno influenzato lo sviluppo dell'umanità, addirittura tali da dar vita a vere e proprie psicosi collettive giunte a tramutarsi in convinzioni che vanno oltre il mondo del fantastico (si è infatti pensato anche all'esistenza di una donna ingravidata e celata sotto mentite vesti nel ruolo di Papa). Un testo, per modalità d'azione proprie dell'essere diabolico che ne sta al centro e adescamento degli adepti (più legato al plagio che alla costrizione), che è sempre moderno e che lancia tristi e pericolosi presagi che hanno trovato conferma nella storia più recente, si pensi all'operato di Hitler e della sua Germania Nazista (con tanto dello sfruttamento della televisione come "statua parlante", come la definisce l'apocalisse, per fare propaganda e indurre alla venerazione il popolo) che sembra incarnare in tutto e per tutto il profilo tracciato da San Giovanni. Centini non lo dice ma è notorio il tentativo di Hitler di sovrascrivere sulla religione cattolica una nuova religione pagana, che avesse al centro la sua stessa figura, tanto da aver composto e imposto alla gioventù delle vere e proprie preghiere al Fuhrer (scalzando il vero destinatario originario che era Cristo). Sorprende un po' che Centini sorvoli su questi aspetti che, ad avviso di questo recensore, sono a tema in modo centrale con questa figura, a partire dalla stessa provenienza del Nazismo (nato nelle logge deviate para-massoniche), ai suoi fini (lo sterminio degli Ebrei ovvero il popolo eletto di Dio) e all'innegabile relazione col mondo diabolico (inversione della svastica e vero e proprio studio del mondo occulto).

Altro aspetto da evidenziare è il totale disinteresse di Centini al versante artistico legato alla figura dell'anticristo. L'autore resta legato a un esame del testo sacro, tralascia tutte le influenze ulteriori, dal cinema, alla narrativa (si pensi a romanzi di successo quali Rosemary's Baby o, in modo più calcanze, Il Presagio di David Seltzer), più legato a una tradizione millenaria e storica. La scelta è comprensibile e attribuibile a un desiderio, verosimilmente, autoriale anziché "depistabile" da credenze più o meno popolari o, peggio ancora (in quanto assai meno sociologiche), legate alla spettacolarizzazione propria del mondo dell'arte.

Un cenno alla cura grafica del testo. La versione Odoya è magistrale come sempre riesce a garantire la casa editrice bolognese. Il volume è ricchissimo di raffigurazioni, molte di esse presenti anche nell'edizione Newton de Il Diavolo di Alfonso Di Nola, ed è corredata di schemi che definiscono, estratti dal testo, in modo chiaro e pronto termini o concetti che richiedono analisi specifiche.

Un volume dunque da comprare per chi intenda approfondire una figura di notevole importanza in ambito religioso, ma anche narrativo e cinematografico. Non a caso acquistai il volume anni fa, peraltro a buon prezzo su una bancarella, perché lo ritenevo immancabile in una biblioteca di un appassionato di certe tematiche. Da sempre affascinanto, come credo una buona parte di lettori e scrittori di fantastico, dall'Apocalisse di San Giovanni, non potevo lasciarmelo scappare anche per chiarificare i tratti di una figura sfumata e controversa che si presta, come avviene sempre nell'ambito delle profezie, a centinaia di interpretazioni talvolta tra loro contrastanti. Pollice alzato ancora per l'Odoya e plauso a Centini per essersi barcamenato, seppur in modo non sempre lineare e massimizzato, in una tematica complessa e per niente semplice.

Il commento in pillole: Testo non semplice, non sempre lineare e caratterizzato da una lunga serie di digressioni e parentesi su argomenti di confine. Alla fine però Centini, penso di poter dire, centra e fissa gli aspetti salienti della figura. Saggio per chi voglia approfondire tematiche storiche, sociologiche e religiose, ma anche per chi lavora in ambito di scrittura creativa-narrativa legata al mondo del fantastico (non dico horror perché non mi piace il termine quando si parla di scrittura).

In copertina, non poteva esser altrimenti (anche se in ballottaggio siam certi di ritenere Il Genio Alato di Torino), un particolare della scultura di Guillaume Geefs, intitolata Il Genio del Male ovvero Lucifero (incatenato), situata nel pulpito della cattedrale Saint-Paul di Liegi (Belgio).

All'ombra della Mole, nella città che viene reputata
il vertice di un triangolo magico che ha in
Londra e San Francisco gli altri vertici, 
se la ride MASSIMO CENTINI,
tra una centuria e l'altra del falso profeta per ANTOnomasia
deceduto 100 anni prima del 1666, 
e, ascoltando l'inno del TORO firmato STATUTO,
scrive 330 anni dopo la data fatidica
di realizzazione, secondo il fantasioso romanzo Il Club Dumas,
del volume Le Nove Porte, il suo saggio
IL RITORNO DELL'ANTICRISTO
ripubblicato da Odoya un numero di anni dopo pari
a quello che nei tarocchi introduce al DIAVOLO.  

"Il Falso Profeta s'adoperava che a tutti fosse impresso sulla mano destra o sulla fronte un marchio, in modo che nessuno potesse comprare o vendere all'infuori di coloro che portavano il marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha mente computi il numero della bestia; è un numero d'uomo. Il suo numero è seicentosessantasei." (WWW).

mercoledì 14 marzo 2018

Recensione Narrativa: HORROR, Storie di Sangue, Spiriti e Segreti - di Dario Argento.



Autore: Dario Argento.
Anno: 2018.
Genere: Antologia Thriller/Horror.
Editore: Mondadori.
Pagine: 160.
Prezzo: 17,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Dopo volumi quali Profondo Thrilling (1975) e Terrore Profondo (1997) ispirati dai film diretti da Dario Argento ridotti in racconti da autori vari (Cozzi, Nicola Lombardi, Tentori e altri), nel 2018 arriva il debutto in narrativa, a settantasette anni suonati, di Dario Argento, il più grande regista horror e thriller italiano. Ormai risucchiato da anni in un maelstrom che lo ha portato a dirigere pellicole sempre meno apprezzate (si pensi ai flop dei vari Il Cartaio, Giallo, La Terza Madre e Dracula 3D), il "grande maestro" romano, probabilmente convinto dalle offerte della Mondadori, tenta, come fatto a suo tempo dal "rivale storico" Lucio Fulci (Le Lune Nere), di rilanciarsi prendendo la strada della narrativa breve. Uscito il sei marzo scorso, con presentazione presso gli Uffizi di Firenze, questo Horror - Storie di Sangue, Spiriti e Segreti si può definire un progetto riuscito a metà. Supportato da Pamela Ferlin, Argento propone al suo pubblico sei racconti brevi, dalle dodici alle quarantadue pagine, sospesi tra il thriller truce e l'horror gotico, non lesinando il grand guignol.
Colpisce subito lo stile dello scrittore, coinvolgente dal primo all'ultimo rigo, e la capacità di toccare le corde emotive del lettore grazie a un'innegabile capacità di costruire visioni oniriche a tratti claustrofobiche. Se questo è sicuramente vero, c'è tuttavia da evidenziare come i soggetti proposti siano poco originali e tutti funzionali a inquietare il lettore piuttosto che a trasmettere un dato messaggio in chiave artistica o a prendere le vie esoteriche.
Argento sembra privilegiare dei vari sottogeneri la ghost story, tanto che dei sei racconti almeno quattro sono ascrivibili a questo genere, di cui due da ritenersi ghost stories pure.

L'antologia si apre con Notte agli Uffizi un racconto che è nato da una costola del film La Sindrome di Stendhal (1996) da cui mutua l'idea che da il titolo al film. Argento, che è il protagonista del racconto e che sostiene di essersi ispirato a un fatto a lui veramente accaduto durante una camminata notturna all'interno degli Uffizi, parla del potere che le opere d'arte sono in grado di esercitare sul pubblico e di come questo possa esserne influenzato fino a subire degli sconvolgimenti emotivi (ivi compresi svenimenti). Il testo scorre molto bene e suscita emozioni anche in chi legge. Argento, rimasto solo all'interno del museo, viene oppresso dai soggetti dei quadri che prendon a vivere e a sussurrargli parole proprio come in un incubo notturno da cui non è possibile svegliarsi. Dapprima giocato sul versante psicologico il testo sconfina presto nel grandguignolesco che raggiunge l'apice quando il regista si trova al cospetto della Medusa raffigurata da Caravaggio. Niente di originale, ma ben raccontato e di effetto.
Possiamo definire un gemello di questo racconto il più elaborato Villa Palagonia, in cui il protagonista si perde all'interno della "Villa dei Mostri", a Palermo, durante un'escursione guidata. Argento da spazio a tutta la sua passione per l'arte e l'architettura onirica, plasmando un vero labirinto che parte dalla "sala degli specchi" e conduce negli scantinati della villa in un passaggio tra realtà e mondo fantastico in cui tornano a vivere i fantasmi e dove le mura assumono sembianze di fiere pronte a sbranare l'ignaro viandante. Un horror dal retrogusto gotico, un po' casa degli orrori, ben gestito e calibrato, che regala dei momenti barkeriani assai gustosi ma si perde in un epilogo non all'altezza del resto del racconto.
E' un gotico puro invece Alchimie Macabre al Castello di Gilles in cui Dario Argento offre la propria reinterpretazione delle follie messe in atto nel proprio castello da Gilles de Rais e dal suo alchimista intento a creare l'elisir di lunga vita. Anche qua grande gestione del testo, con momenti toccanti in uno scantinato in cui, tra topi, deiezioni e cibo decomposto, sono segregati tutta una serie di bambini prossimi a esser sacrificati prima ai piaceri perversi del barone e poi alle torture del mago dello stesso. Racconto più drammatico che horror, con Argento che colpisce nello stomaco il lettore agendo soprattutto sui bambini. Tremendo, ma al contempo reale (quello che viene narrato è successo davvero).
Punti in comune al racconto di De Rais sono racchiusi ne Le Segrete di Merano, probabilmente il racconto più riuscito del testo, in cui un tredicenne romano viene spedito in vacanza estiva a Merano da una zia. Qua perderà la sua innocenza, passando dall'infanzia all'adolescenza. Se vogliamo si tratta di un perverso racconto di formazione alla Dario Argento, con un bambino che scopre il sesso e ne è un po' impaurito e un po' attratto. Testo dunque coraggioso anche se con alcuni momenti gratuiti che prendono la via della pedofilia. Argento caratterizza la zia del giovane con tutti gli stereotipi del tipico altoadesino di lingua tedesca, austero e poco loquace, per dar vita a una storia che cresce alla distanza in un intreccio giallo che finisce per unirsi a satanismo e ghost story con marcate punte di erotismo malato. Da lodare, ancora una volta, la gestione del testo con una tensione crescente e centellinata. Niente di nuovo, ma ben raccontato. E' il testo più perverso dell'antologia.
Di livello inferiore, a mio avviso, gli altri due racconti che comunque riescono a intrattenere. Rosso Porpora alla Biblioteca Angelica è un giallo alla Dario Argento. Un professore scambia per errore il proprio cellulare con quello di un uomo che viene assassinato poco dopo. Lo scambio di cellulare porta l'assassino a temere di esser individuato dal professore e parte così una caccia per Roma, col secondo che viene costantemente braccato da un sicario che spara con la pistola e ricorre a coltelli. Tensione assicurata, gestione del testo buona, ma finale fracassone e confusionario. Non mancano punte splatter.
L'antologia si chiude con Demoni a Singapore, il testo più lungo, un'opera che non sembra neppure di Dario Argento. Il regista romano trae ispirazione dai massacri messi in atto dagli integralisti islamici per plasmare una vera e propria mattanza (mai letto un racconto con tanti morti) messa in atto da un commando musulmano in una zona turistica. Il racconto è un distillato di azione, tra smitragliate, esplosioni e squarciamenti vari. Ettolitri di sangue, personaggi messi in scena per esser mandati al macello con un background fantastico caratterizzato da uno spirito che emerge da una sorta di tempio della giungla per impossessarsi dei varani e scagliarli all'attacco dei terroristi e delle squadre speciali mandate dal governo per arginare l'assalto. Esercizio di stile, con strizzatine d'occhio alla tematica snuff movie, se vogliamo di massa, con un committente che ha fatto posizionare sui caschetti di alcuni terroristi delle telecamere con cui riprendere il massacro per poi rivedere il tutto sul mercato clandestino. Finale arzigogolato tra azione, fantastico e spy story. Chissà se Argento si sia ispirato all'assalto dei marines nel bunker di Bin Laden.

Che dire a fine lettura? Si tratta di un volume che, al di là del valore, deve essere comprato da ogni fan di Dario Argento per completezza e che ha il pregio di esser scritto bene e in modo coinvolgente. Le storie, pur se poco originali, prendono e inducono a esser lette. Mancano, purtroppo, i colpi di genio e una vera ispirazione. Si ha più l'impressione che Argento si sia misurato con la scrittura senza sentirne un vero spunto autoriale. Per fare un parallelo con l'antologia di Fulci, si può dire che Argento dimostra di avere ampie doti da scrittore fantastico, per tecnica e gusto, ma è meno ispirato rispetto al suo illustre collega che tuttavia supera in mestiere e tecnica. Spero tuttavia che Argento insista in questa sua nuova attività, perché la tecnica è quella buona.
Quanto alla confezione direi che è all'altezza della situazione, ma eccessivamente cara. 17 euro per 160 pagine griffate Mondadori non sono poche. Manca inoltre un'introduzione, non ci sono interviste che spieghino i processi formativi dei racconti né altro che possa rendere più appetitoso il volume che, di fatto, è caratterizzato da una pagina di prefazione e dai soli racconti.
Si fa notare l'indicazione della frase lancio di Guillermo Del Toro, fresco premiato con l'Oscar, stampata in copertina: "Dario Argento è un Dio, il mio!"

La stella del cinema horror italiano
DARIO ARGENTO (a sx) in compagnia
del direttore degli Uffizi.

"Fin da quando ero ragazzino, guardare un dipinto ha significato per me l'inizio di un viaggio in una dimensione parallela in cui i confini del reale si confondono con il sogno, creando una realtà altra dove spazio e tempo si staccano dal contingente."

martedì 6 marzo 2018

Recensione Narrativa: RIVISTA ZOTIQUE - Inverno 2017.



Direttore e Curatore: Pietro Guarriello.
Genere: Rivista del Fantastico con saggi, interviste, recensioni e racconti originali di scrittori affermati.
Editore: Dagon Press.
Indirizzo di Redazione: Viale delle Orchidee, 6, Pineto (Te).
Numero: Anno I, N.1.
Testi in ordine di presentazione: Luca Rasponi, Pietro Guarriello, H.H.Ewers, Giuseppe Marotta, Maria Antonietta Parra, Mary Fortune, Arthur Machen, Cesare Buttaboni e Howard Pease.
Pagine: 194.
Prezzo: 14 euro.

Commento di Matteo Mancini.
"Pubblicazione aperiodica e amatoriale senza fini di lucro e a tiratura controllata e limitata, intesa a promuovere la divulgazione della letteratura weird e fantastica attraverso racconti, saggi, recensioni, articoli e documenti." Così Pietro Guarriello pesenta la sua ultima fatica, una rivista collettiva in cui il suo peso, quanto a questo primo numero, tende a essere prevelanete sia in chiave di contributi sia in chiave di ideazione e scelta dei testi. Chiamata Zotique, in omaggio allo scrittore Clark Ashton Smith, uno dei c.d. Tre Moschettieri della rivista pulp di inizio novecento Weird Tales (gli altri due erano Howard P. Lovecraft e Robert E. Howard), la rivista spicca subito per un'eccelsa veste grafica, assai più simile a un libro illustrato che a una rivista di fortuna. Stona allora quell'"amatoriale" che non deve intendersi quale sinonimo di approssimativo o di dozzinale, quanto quale prodotto di chi non ha la fortuna di essere professionista ovvero un soggetto che riceve compensi idonei per il lavoro prestato a ristoro dello "sforzo" o comunque di corrispettivo per la condivisione di anni di studio alla base di opinioni più o meno personali inerenti al grande mondo della narrativa fantastica. Guarriello di amatoriale, infatti, ha davvero poco e, qualitativamente parlando, ha tutto (meno l'adeguato trattamento economico) per essere considerato un professionista. Del resto non lo si scopre certo a seguito di questo progetto, essendo ormai da anni uno degli studiosi e appassionati del genere più colti nel panorama di nicchia (uso questo termine al posto di underground, perché lo ritengo assai più appropriato). Traduttore, antologista, selezionatore di lavori, editore a capo della non troppo prolifica (ahinoi) Dagon Press, Guarriello è soprattutto un saggista sopraffino e lo dimostra ancora per l'ennesima volta.

Apre la sua Zotique con un contributo di Luca Rasponi intitolato Elogio della Letteratura Fantastica: Horror, Fantascienza e Fantasy. Testo tanto semplice quanto chiaro e calibrato, utile peraltro a comprendere la ragioni che stanno alla base della nascita del genere ("Il fantastico non si configura come una semplice fuga dal reale, bensì come una lente nuova e sempre diversa attraverso cui guardare la realtà stessa"). Rasponi non si perde in disamine dotte o arzigogolate, ma punta all'essenziale. Niente a che fare con "l'accademia" di uno Tzvetan Todorov (a cui Guarriello dedica il primo numero della rivista con una citazione iniziale), senz'altro faro centrale per lo studio approfondito della materia (si veda il suo La Letteratura Fantastica), ma un approccio adatto a chi affronta per la prima volta la materia. Ecco così che viene spiegata al lettore (meglio ancora se neofita) sia la nascita dei tre grandi sottogeneri del fantastico, con i loro racconti e autori cardinali, sia gli sviluppi e le strade prese, in chiave evolutiva, dai vari filoni e sia cosa debba intendersi per "horror", "fantascienza" e "fantasy". Un inizio dunque giusto e fondamentale per addentrarsi nella materia senza il rischio di avere le idee poco chiare.

La rivista prosegue con un eccelso speciale sullo scrittore tedesco Hanns H. Ewers, scrittore di cui abbiamo già ampiamente parlato su queste pagine in occasione delle recensioni dell'antologia Il Ragno e Altri Racconti e del romanzo Alraune - La Mandragora. E' Guarriello a confezionare l'articolo, formato da trenta pagine scarse, raccontando la vita e le opere di genere fantastico di questo controverso, quanto maledetto, autore che si autodefiniva una viandante nei giardini della follia. Ancora una volta, la fanno da padrone la semplicità, la chiarezza espositiva e la scorrevolezza del testo. Guarriello, intoltre, delizia il suo pubblico proponendo tre racconti inediti in Italia dello scrittore ovvero Carnevale a Cadice, Il Mimo Crocifisso e Nel Paese dei Mostri. Scelta, quest'ultima, che rende imperdibile l'acquisto per tutti i cultori del genere e, più in particolare, per gli studiosi della narrativa fantastica teutonica.

Sempre Guarriello offre la propria interpretazione del primo romanzo scritto da William H. Hodgson, Naufragio Verso l'Ignoto, che viene presentato e analizzato con tanto di intervista all'ultima autrice della traduzione uscita in Italia (la giovane Maria Antonietta Parra).

Dopo il dossier su un grande maestro del genere e l'analisi di un classico di grande richiamo nell'ambito del genere, Guarriello inaugura la sezione "Le Donne del Weird" presentando la misconosciuta Mary Fortune (da non confondersi con la più famosa Dion Fortune), entrata nella storia della letteratura del brivido per esser stata la prima scrittrice di sesso femminile a far uscire un racconto horror in Australia. Guarriello ne ripercorre la carriera, ne plasma un profilo e ci racconta i suoi tanti problemi esistenziali e la volontà di trincerarsi dietro uno pseudonimo per proteggere la propria vita privata, ma ci fa anche capire quanto difficile fosse per una donna dell'ottocento affermarsi in un mondo considerato ad appannaggio di nobil donne o maschi. "Sono ciò che i miei amici - ehm - i miei conoscenti a due zampe, chiamano una persona molto eccentrica e una creatura piuttosto peculiare" così amava definirsi la Fortune (donna nord irlandese emigrata in Oceania). Un po' come per Ewers, Guarriello sublima il momento dando alle stampe, per la prima volta in Italia, il racconto in questione: La Maniaca Bianca. Una scelta che trasforma, sempre più, Zotique in una prelibatezza da collezionisti assetati di novità tanto da tramutarsi in oggetto dei desideri con L'Occultismo in Letteratura di Arthur Machen. Saggio, quest'ultimo, che mette in chiaro il pensiero dell'autore de Il Grande Dio Pan circa l'occultismo delle origini e quello a lui attuale (figurarsi cosa avrebbe pensato di quello del nuovo secolo) e quanto questo abbia avuto influenza sulla letteratura. Machen evidenzia come l'esoterismo sia sempre più diventato essoterico ovvero impoverito nella sua vera essenza, depauperato dall'allegoria di base in favore di un approccio non più metaforico quanto supposto reale. Un involgarimento che lo porta a stroncare la cialtronaggine, a suo dire, di medium, satanisti e persino teosofici. Usa, per far capire questo, la scienza alchemica da intendersi, nell'accezione antica, quale ricerca della trasmutazione dell'uomo (e non dei metalli) così da liberare l'anima dalle catene del materialismo. E così come gli alchemici del volgo si sono involuti in personaggi alla caccia della formula per trasformare il piombo in oro, così hanno fatto gli altri operatori dell'occulto. Premessa questa sua critica all'esoterismo dell'epoca, Machen si sofferma sulla narrativa dell'ultimo secolo, avendo come riferimento la prima metà del novecento come termine estremo dell'arco temporale. Articolo interessante nella parte generale, che diviene invece veloce e dalla consistenza di piccole pillole relativamente ai racconti o romanzi, ad avviso di Machen, da salvare e recuperare e altri da censurare o comunque da ritenere menzionieri. Anche qua è da lodare l'impegno di Guarriello di dotare il testo di una serie infinita di note per renderlo fruibile anche ai non iniziati (al genere). Un lavoro davvero eccelso quello del curatore, non ci stanchiamo di ripeterlo.

La parte terminale della rivista vede una lunga serie di recensioni delle ultime novità editoriali datate 2016 e 2017 in ambito fantastico, in particolare dedicate alla ristampa dei grandi classici del genere andati in oblio e di nuovo ripescati (autori quali Hogg, Stoker, Dickens etc). Ci guidano in questa carrellata, assai utile per gli acquisti, Guarrielo prima (recensioni e critica dei testi ultra dettagliate) e poi l'amico Cesare Buttaboni (assai più sintetico e panoramico) per ritornare su Guarriello con la sezione dedicata alle uscite all'estero.

Chiusura con un racconto dello scrittore ottocentesco Howard Pease intitolato Il Sosia.

Che dire in conclusione? Grandissimo lavoro e grande professionalità per un rivista che si legge con facilità ed entusiasmo, indirizzata agli studiosi del genere e a coloro che desiderano perfezionare e ampliare la propria cultura fantastica, ma anche a chi intende affacciarsi per la prima volta a questa branca che, ad avviso di chi scrive e a dispetto di chi ha la puzza sotto il naso, è da reputarsi eletta con la "E" maiuscola (si veda la citazione di Machen che appongo in calce). Un progetto, data anche la scarsa potenza economica della casa editrice, da lodare prima e poi promuovere e sostenere anche in virtù di un prezzo che, data la confezione e soprattutto la qualità dei testi, dir risibile è davvero dir poco (14 euro per 190 pagine tra cui sei inediti da collezionisti). La promozione della narrativa fantastica passa soprattutto da questi piccoli volumi, piccoli solo per la natura della casa editrice che è alle spalle ma eccelsi per passione e competenza dei coinvolti. Ogni acquisto rende sempre più viva la rivista e fa sì che possa sopravvivere, trasformando gli acquirenti non in meri ricevitori passivi di informazioni ma in partecipanti attivi a un gruppo che vuol raccontare e proporre ancora molto pur di far emergere dagli abissi del tempo i grandi maestri del fantastico. Da avere in biblioteca, magari nutrendo la speranza, per nulla imponderata in considerazione della tiratura limitata, che possa diventare un volume da collezione (vi ricordo gli inediti che vi sono all'interno). PROMOSSA A PIENI VOTI. Oltre tutto, potrebbe essere un affare aggiudicarsela.

Il Direttore di Zotique
PIETRO GUARRIELLO.

"Forse il vero occultismo è da ricercarsi nei libri di coloro che mai con consapevolezza hanno provato a scrivere di cose segrete, nelle melodie inascoltate, e sono gli incantesimi più potenti che i rivestimenti magici aprono sulla piena visione del mondo invisibile." (Arthur Machen, The Literature of Occultism, 1899).