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lunedì 2 ottobre 2017

Recensione Narrativa: NERI ARALDI DELLA NOTTE di Fritz Leiber.



Autore: Fritz Leiber.
Titolo originaleNight's Black Agents.
Anno: 1947.
Edizione: Casa Editrice La Tribuna, 1979.
Genere: Fantastico/Fantascienza.
Pagine: 232.

A cura di Matteo Mancini.
Neri Araldi della Notte, ovvero Night's Black Agents, è l'antologia di debutto di uno dei più grandi autori di narrativa fantastica, in senso ampio, della seconda metà del novecento, quanto meno per l'importanza evolutiva (o involutiva, a seconda dei punti di vista) del genere horror. Uscita nel 1947, raccoglie dieci racconti (otto nell'edizione italiana curata dalla Casa Editrice Tribuna nel 1979, più uno di Williamson) scritti tra il 1939 e il 1947 che avranno l'onore di riplasmare gli stereotipi gotici rimodulandoli e adattandoli alla nuova società del secondo dopo guerra, vista come “architettonicamente e moralmente corrotta” (parole di Gianni Montanari). Dietro al progetto spicca l'estro visionario e poliedrico di uno scrittore di Chicago di origini tedesche, che entrerà nell'immaginario collettivo fungendo da maestro dei vari Richard Matheson e Stephen King, ma anche del regista George A. Romero. Stiamo parlando di Fritz Leiber, un vero e proprio artista a 360 gradi con ispirazione creative multidisciplinare sospese tra horror, fantascienza e fantasy. Una carriera che ha molto in comune con quella di Robert Bloch e soprattutto di Ray Bradbury, a partire dall'età anagrafica e dall'aver preso le mosse grazie alla corrispondenza con Howard Philips Lovecraft. 

Classe 1910, vanta una produzione sterminata resa tale da una longevità che si è arrestata con la dipartita verso altri lidi astrali avvenuta nel 1992, alla sonora età di ottantadue anni. Figlio d'arte, cresce in una famiglia di attori shakesperiani ed è introdotto dal padre (star di Hollywood) nel mondo del cinema in veste d'attore e anche in teatro. All'interpretazione però predilige la creazione ed è nel ruolo di scrittore che scala il mondo dell'arte. Si laurea in filosofia, intraprende svariate professioni, dal predicatore al giocatore professionista di scacchi (si aggiudica persino il Campionato della California), dilettandosi inoltre nella scherma, nella matematica e nelle materie scientifiche. Una personalità dunque complessa, adattabile a svariate discipline con un background da genio & sregolatezza che sfocerà negli anni '50, dopo la morte della moglie, nell'alcolismo. 

Dimostra fin da subito, proprio con Neri Araldi della Notte, la volontà di manlevarsi dai generi convenzionali, di ammodernarli, per imprimere un proprio messaggio e una nuova direttiva su cui battere, quasi a voler evadere da quel progresso urbano che i suoi racconti sembrano ricusare in favore di un passato naturalista ormai perduto. È proprio lui uno dei padri del sottogenere definito Urban Gothic, un diverso modo di concepire il terrore, che andrà, a poco a poco, a soffocare gotico classico scuola Radcliffe ma anche il terrore esoterico legato al periodo vittoriano inglese (tenuto in alto dai simpatizzanti Golden Dawn) e/o al teosofismo di impronta teutonica. Con Leiber l'orrore arriva e nasce nelle città, un male generato dalla nuova condizione frenetica di vita. Il terrore si libera sia dall'interno dell'uomo che prende coscienza del proprio stato (di marionetta), sia dall'inquinamento sonoro e atmosferico che gli gravita intorno e alimenta un vero e proprio cancro. A questo contesto si aggiunge poi il pericolo insito negli oggetti della vita di tutti i giorni (King svilupperà questa sotto branca) che diventano ricettori di maledizioni o veicoli di ingresso di forze ultra dimensionali o addirittura legate ad altri mondi. Molto importante inoltre l'elemento onirico, il sogno/incubo inteso come canale di accesso che permette ai mostri di irrompere nella realtà o all'uomo di esser espulso nell'ignoto. Cosa vi ricorda questa base che ha nell'incubo la via di uscita dei mostri...? A me fa saltare alla memoria Nightmare di Wes Craven, che di certo era un ammiratore di Leiber. 

Nonostante la spinta innovativa, resta (per fortuna) un certo retaggio di quel cosmic horror sdoganato da Lovecraft. Ne è un'evidente estrinsecazione I Sogni di Albert Moreland (1947) in cui un giocatore di scacchi professionista, solito giocare con chiunque intenda sfidarlo, vive un incubo ricorrente e progressivo all'interno del quale sfida, ai confini dell'universo, un'entità interspaziale di cui non riesce a veder forma. In palio c'è la sorte del mondo in un parallelismo che vede Leiber giostrare tra la realtà e la fantasia, proponendo, se vogliamo, la seconda guerra mondiale in un'ipotetica partita a scacchi con un gigante occulto (forse lo stesso Dio) che minaccia la pace muovendo pedine che uccidono a distanza in una scacchiera delineata alla stregua di un vero e proprio campo di battaglia. Emblematici, in chiave subliminale, l'inizio e la pedina che innesca il finale di partita. Leiber inizia così il racconto: “Considero l'autunno del 1939 non come l'inizio della seconda guerra mondiale, bensì come il periodo nel quale Albert Moreland sognò il suo sogno”. Non può essere un caso l'aver avviato l'elaborato in questo modo, così come non lo è la pedina su cui ruota l'intera partita, rappresentata quale arciere (collegamenti al mitico racconto bellico dal titolo omonimo di Arthur Machen?) dotato di un'arma che da "l'impressione di poter colpire a distanza." Leiber rincara la dose facendo dire a Moreland, in relazione a questa pedina: "Dio solo sa perché la mia mente ha sfornato un essere così osceno, cinquecento anni fa, avrei detto che era stato il Diavolo a metterlo là". A mio avviso questa pedina simboleggia l'evoluzione della guerra, sempre più distruttiva e comandata a distanza (aerei, incrociatori e altre soluzioni che hanno poso termine alla guerra di posizione, quella nelle trincere, in favore di una globale su tutto il territorio che oltre ai soldati uccide anche i liberi cittadini), mentre l'incubo di cui il protagonista ne è parte attiva può ben considerarsi una profezia di quanto sarebbe successo di lì a poco nello scacchiere dell'Europa. Non a caso Leiber, nel racconto successivo, L'Uomo che non Divenne Mai Giovane (1947), parla proprio di Hitler e dell'umanità con un protagonista che vivrà un percorso a ritroso, col mondo e la storia che prendono a marciare all'indietro in un ritornare alle origini, che non può aver altro senso se non delineare il cammino intrapreso per la conquista di quell'Eden smarrito da cui l'unico uomo immortale, ovvero l'Adamo delle antiche scritture sacre, e i suoi figli sono stati scacciati.

Se i due racconti sopracitati li potremmo definire i trascendenti, ci sono almeno tre elaborati che costituiscono il manifesto dell'Urban Gothic. È lo stesso Leiber, nel testo, a imprimere la propria concezione della nuova frontiera del genere. Ne Il Cane (The Hound, 1942) specifica come gli “esseri soprannaturali” modificano la propria sostanza al modificarsi dei tessuti sociologici inerenti all'ambiente in cui vive l'uomo. “Ogni cultura crea i suoi fantasmi. Il Medioevo costruì le cattedrali, e ben presto apparvero alcune forme grigie che scivolavano qua e là di notte per parlare con i mostri gotici di pietra. La stessa cosa dovrebbe accadere a noi, con i nostri grattacieli e le fabbriche del giorno d'oggi... Allo stesso modo la nostra cultura genera all'improvviso una schiera di demoni.” Così vediamo come dalla sfera onirica del sogno notturno del protagonista un licantropo moderno assume forma e sostanza fino ad attaccare il protagonista che sembra non adeguarsi alla città e cerca, vagamente, di fuggirvi in una folle corsa verso la campagna. Testo dotato di grande pathos con un bellissimo finale che esorcizza la follia del singolo a favore della concretezza del fantastico. Più emblematico è tuttavia Fasantma di Fumo (1941) che vede lo smog cittadino assumere la consistenza di un fantasma cosciente capace di impossessarsi delle persone, per condurle alla sottomissione. Evidente quindi la condanna dell'autore dell'edificazione incontrollata e dell'urbanizzazione selvaggia in un epilogo che mette alla berlina il materialismo che guida la condizione umana: “Ti obbedirò. Tu sei il mio Dio. Hai pieni poteri sull'uomo e sui suoi animali e sulle sue macchine. Tu governi questa città, e tutte le altre” così si piega il protagonista al cospetto del Dio occulto che governa la città e che è il risultato indiretto dell'azione del denaro. Di certo un racconto molto interessante, specie per l'epoca, ricordato in tutti le analisi dedicate a Leiber.

Ne La Pistola Automatica (1940), il racconto più vecchio del lotto, si assiste al tentativo di modernizzare il genere. Leiber parte dalla tradizione parlando di stregoneria e “familiari”, ovvero quelle creature (di solito gatti neri, cani o rospi) che il diavolo consegnava a una strega quali suoi aiutanti dotati di poteri paranormali, per mutarle in oggetti apparentemente inerti costruiti non si sa bene da chi (direi il diavolo). Così abbiamo un contrabbandiere di alcool che, in età di proibizionismo, ha un rapporto morboso con la sua pistola automatica, con cui parla in una lingua misteriosa, e che si scoprirà esser munita di vita propria. Leiber, ancora una volta, arriva a spiegare che pure l'esoterismo e l'occultismo si modernizzano al modernizzarsi della società: “i tempi e gli stili cambiano... e con essi possono essere cambiate anche le caratteristiche dei Familiari.” Si tratta di un celebre racconto che farà scuola e proseliti, basti pensare a svariati racconti di Stephen King o di Richard Matheson. 

Di natura diversa, ma di ragionamento similare, è il più fascinoso Il Diario nella Neve in cui uno scrittore in cerca di ispirazione si reca, in compagnia di un collega, in una casetta immersa nel nulla e avvolta da una bufera di neve per stimolare la propria creatività. L'edificio è isolato da tutto ed è difficilmente raggiungibile da persone esterne. A poco poco, cercando di scrivere la sua storia con il compagno che batte a macchina ogni sera, la follia rapirà la sanità mentale dei due che finiranno per scontrarsi con tanto di ascia. Cosa vi ricorda? Esatto, direi anche io Shining. Leiber tuttavia, anziché mettere in scena dei fantasmi, resta legato alle reminiscenze lovecraftiane costituite da un epilogo ambiguo che sembra suggerire, più una spiegazione da cronaca nera, l'intervento di creature aliene capaci di materializzarsi (un tormentone a quanto pare per Leiber) grazie all'influsso mentale del protagonista stimolato dalle onde emesse da trasmissioni radio controllate, all'insaputa dei due protagonisti, dallo spazio per mezzo di bizzarri raggi violetti. Testo un po' prolisso, ma dotato di un'atmosfera molto qualitativa e di un gran bel finale.

Completano il testo due racconti, a mio avviso, meno personali ovvero L'Eredità e La Collina e il Buco. Nel primo, grazie al solito sogno (questa volta risolutore), un vagabondo che ha ereditato un contratto di locazione di una stanza da un zio defunto scopre che il suo dante causa era un serial killer squartatore mai arrestato. Belle le descrizioni di Leiber che mette in scena una dissociazione tra spirito e corpo col primo che si invola in alto, alla stregua di un attuale drone, e impedisce al secondo di commettere i delitti reclamati dalla cattiva influenza della divisa da poliziotto (di nuovo gli oggetti che assumono portata orrorifica) con cui l'assassino era solito approcciare le vittime e che è stata, anch'essa, ereditata insieme alla stanza. Nel secondo racconto, meno interessante, due scienziati impegnati nelle misurazioni di una collina scoprono che la sommità della stessa è in realtà una depressione sotto la quale vivono scheletri umani pronti a far sprofondare i malcapitati. Questi ultimi però, anziché scomparire sotto terra, cadono al suolo per improvviso soffocamento con i vestiti sporcati proprio come se fossero stati ricoperti di terra.

La Tribuna Edizioni ha infine deciso, piuttosto incomprensibilmente (ma per fortuna), di aggiungere, in luogo dei due racconti tagliati (in quanto fantasy legati al ciclo Fafhrd), I Lupi delle Tenebre di Jack Williamson. Si tratta di un gioiellino, datato 1931, che anticipa, a suo modo, sia La Notte dei Morti Viventi (1968) di Romero sia L'Invasione degli Ultracorpi (1956) di Don Siegel. Tutto è incentrato su due scienziati che hanno costruito un macchinario in grado, attraverso la variazione della velocità delle vibrazioni della materia e della luce, di allineare la dimensione terrestre con le altre infinite dimensioni esistenti. “Il nostro universo non è semplice. Mondi e mondi sono a fianco, come pagine di un libro... e ogni mondo è ignoto a tutti gli altri... strani mondi che si toccano, girano affiancati, eppure sono divisi da mura difficili da abbattere.” La scoperta porta la Terra ad allinearsi con un mondo oscuro popolato da “cose striscianti e appiccicose” che finiscono col rubare i corpi di uomini e animali, sostituendosi alla guida dei relativi cervelli, al fine di conquistare il mondo penetrando nell'organismo alla stregua dei parassiti de Il Demone sotto la Pelle di Cronenberg o del successivo Slither. L'uomo e gli animali divengono così meri involucri, delle macchine, da guidare e orientare secondo la nuova coscienza più evoluta, l'aliena, dal corpo vermiforme (altra variante metaforica che farà scuola in epoca moderna con il new weird dei vari Ligotti e Barron). Un racconto, lo si intuisce già da questa breve descrizione, avanti anni luce rispetto a quanto sarebbe stato scritto e prodotto negli anni a seguire, ivi compreso al cinema, penso alla serie X-Files con l'entità aliena che si vede scivolare negli occhi degli infettati o sotto la loro cute nell'episodio guida che lega i vari episodi. Un grandissimo racconto dunque che ha qualche similitudine con Il Diario nella Neve di Leiber per il suo essere ambientato tra i ghiacci e per il suo esser caratterizzato da creature aliene intenzionate a conquistare la Terra, sfruttando la buona fede umana. Da ricordare le descrizioni dei cadaveri (ivi compresi cavalli e lupi) che riprendono vita, sotto l'influsso dei parassiti, e se ne vanno in giro con corpi sviscerati proprio come poi, svariati decenni dopo, faranno gli zombie cinematografici. Quanto basta per elevare il pezzo di Williamson al rango di grande classico e salvare La Tribuna da una decisione alquanto incomprensibile.

Chiudo con la calzante osservazione esternata in prefazione da Gianni Montanari, il quale scrive: “Leiber inizia con queste sue storie un'esame spesso impietoso dei mali e delle alienazioni causate direttamente dalla metropoli e da un ritmo di vita al limite dell'innaturale... dove la sopravvivenza fisica dell'individuo viene aggredita dalla facciata esterna della società moderna non appena un'oncia di coscienza fa capolino nella mente del singolo.”
Un'antologia in definitiva che non può mancare nelle biblioteche di ogni studioso del genere fantastico e della narrativa del terrore moderna.

L'allievo del GRANDE MAESTRO
HPL
appassionato di scacchi e figlio di attori del cinema
FRITZ LEIBER.

"Era un giocatore professionista che guadagnava le sue scarse entrate in una saletta da gioco accettando di misurarsi contro chiunque.... l'appassionato che trovava uno stimolo particolare nel suo tentativo di battere un esperto, l'uomo solitario che si dedicava agli scacchi come a una droga o il fallito che veniva tentato dall'acquisto di mezz'ora di dignità intellettuale per un quarto di dollaro.
Era un giocatore molto migliore di quanto gli sarebbe bastato essere per il suo lavoro in quella sala. Aveva vinto partite contro maestri di fama internazionale e un paio di circoli scacchistici di Manhattan avevano cercato di associarselo per i grandi tornei, ma la mancanza di ogni ambizione induceva Moreland a restare nell'anonimato, quasi alla deriva." 


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