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lunedì 5 dicembre 2016

Recensione Narrativa UNO STUDIO IN ROSSO di Arthur Conan Doyle.



Autore: Arthur Conan Doyle.
Titolo Originale: A Study in Scarlet.
Genere: Giallo.
Anno: 1887.
Pagine: 130 circa.

Commento di Matteo Mancini.
Pietra miliare del genere giallo/poliziesco soprattutto per essere il romanzo che introduce il personaggio di Sherlock Holmes e il suo metodo analitico che farà scuola in narrativa, ma anche nel campo d'indagine della vita di tutti i giorni gettando le basi dell'odierna criminologia.
Conan Doyle avvia così la serie che gli regalerà una fortuna economica probabilmente non preventivabile quando, nel 1887, concepì questo suo Uno Studio in Rosso. Il medico scozzese, di origini irlandesi, quando pubblica il romanzo ha circa ventotto anni e ha già scritto alcuni discreti racconti brevi rientranti nell'alveo della narrativa del terrore, ma è ancora lontano dalle storie fantastiche del Professor Challenger che amerà, crediamo di poter dire, molto di più del suo geniale detective. Affascinato dalle storie, poche per la verità, con protagonista l'investigatore Auguste Dupin di Edgar Allan Poe che, nel 1841, comparve nel romanzo ispiratore I Delitti della Rue Morgue, Doyle decide così di dar vita a un testo che aprirà le porte a una lunga serie. Quattro romanzi e qualcosa come una sessantina di racconti, che hanno tutti in comune, altro aspetto che farà scuola, una narrazione filtrata dai ricordi dell'assistente Watson che ricorda i casi come se stesse leggendo le pagine di un suo diario.

A differenza delle opere di Poe però, questo primo romanzo, non si concentra sull'intreccio giallo, ma punta tutto sulla caratterizzazione dei personaggi e sul metodo di indagine utilizzato per risolvere un duplice delitto il cui movente è sepolto negli anni e si riconduce a una vecchia vendetta. Dunque niente a che vedere, a esempio, con i successivi gialli di Agatha Christie, tanto per citare un'altra Grande Maestra, finalizzati a portare il lettore a chiedersi chi sia l'autore degli omicidi e a scovarlo tra una serie di sospettati, grazie a svariati indizi seminati nel testo. Qua non c'è alcun interesse a spingere verso questa direzione, del tutto impraticabile peraltro, ciò che preme all'autore è presentare il metodo d'indagine rivoluzionario del suo personaggio. Doyle addirittura arriva a dividere la storia in due parti, con una sorta di racconto nel racconto. Abbiamo la prima parte dove, dopo aver presentato i personaggi e analizzata la scena del crimine per cui Sherlock Holmes viene ingaggiato da Scotland Yard in veste di consulente, viene risolto il caso e una seconda parte dove, regredendo indietro di trenta anni in una scenografia western, si spiegano, partendo molto alla lontana, le ragioni che stanno alla base del duplice omicidio consumato a Londra. Una storia quest'ultima che verte sulla volontà ossessiva di vendetta di un uomo riconnessa alla scomparsa di una giovane donna deceduta, per crepacuore, all'interno di una comunità di mormoni (tratteggiati come una setta dominata da un santone accentratore).

Statua di Sherlock Holmes
a Londra.

Intreccio dunque tutt'altro che memorabile, ma caratterizzazione e spiegazione del metodo d'indagine di alta scuola tanto da elevare il romanzo a pietra miliare. Doyle gioca a voler superare il maestro Poe, facendo dire al suo protagonista che i metodi del corrispettivo collega americano (Dupin) sono molto plateali e superficiali oltre che poco geniali. Ne deriva l'ideazione di un personaggio in apparenza pomposo e presuntuoso, quasi un giocatore d'azzardo che spara ricostruzioni e arriva persino a dire, a colpo d'occhio, i mestieri delle persone che passeggiano per la strada, ma che alla fine non sbaglia alcuna visione e previsione riqualificandosi così da potenziale cialtrone a genio, una specie di mentalista ante litteram che assorbe dati, analizzando vestiti, portamenti, caratteristiche fisiche, tracce sul terreno, attraverso un ragionamento regressivo che prende le mosse dai dati oggettivi che si hanno sotto gli occhi per concludersi con l'individuazione del dato da scoprire. Un metodo di indagine che lascia sorpresi i poliziotti professionisti che invece affondano o sbagliano nell'interpretare i vari indizi. Infatti, se Sherlock Holmes spicca, Doyle mette in cattiva luce Scotland Yard e i suoi poliziotti. “Gregson è la mente più brillante di Scotland Yard. Lui e Lestrade sono gli elementi migliori di un branco di imbecilli...” I due agenti finiranno così per imboccare piste sbagliate e arrestare innocenti, mentre Sherlock, attraverso l'impiego anche di un un gruppo di ragazzotti di strada, riuscirà a individuare il vero responsabile. Ciò nonostante, sulla carta stampata, i meriti della risoluzione del caso andranno tutti a Scotland Yard perché “questo succede quando non si ha una posizione ufficiale.” Sherlock Holmes viene definito dai giornalisti, che non sono a conoscenza del dietro le quinte, come un dilettante che può solo sperare, col tempo, di conseguire un po' delle abilità dei due grandi poliziotti. Lapidario il commento di Sherlock, alla vista dell'articolo e alla presenza dell'amico Watson (conosciuto perché quest'ultimo, di ritorno da una campagna militare in Afghanistan, era in cerca di un alloggio da dividere con un compagno di camera), in riferimento all'esito finale della storia: “A questo mondo, quello che si fa non ha molta importanza. Il problema è, cosa si può far credere alla gente di aver fatto!”

Un cenno conclusivo va alla caratterizzazione di Sherlock Holmes. Doyle non da vita a un super eroe completo e tuttologo, piuttosto a uno specialista dell'indagine ovvero a una vera e propria macchina di indagine che sa tutto quello che deve sapere per perseguire il suo obiettivo, ma che poi ignora tutto il resto persino ovvietà riconducibili a una minima conoscenza di cultura generale. Un imprinting che trova la sua ragione d'essere in una convinzione che lo stesso indagatore spiega al suo assistente, stupefatto dei commenti del mentore che dichiara di disinteressarsi del tutto alla teoria copernicana. Così spiega Holmes:“il cervello umano è come un attico vuoto che uno deve riempire con i mobili che preferisce. Uno sciocco assimila ogni sorta di ciarpame gli viene a tiro, così le nozioni che potrebbero essergli utili vengono spinte fuori o, nella migliore delle ipotesi, accatastate alla rinfusa insieme con un'infinità di altre cose, di modo che ha difficoltà a ritrovarle. Un operaio abile, invece, sta molto attento a ciò che immagazzina nel suo cervello.”
Dunque un individuo che non è laureato, eppure studia più di coloro che seguono i corsi convenzionali e lo fa attraverso l'analisi di una serie di materie variegate tutte funzionali a fargli espletare la sua professione di detective dilettante. Un personaggio fuori schema, bizzarro e a tratti poco raccomandabile che pure supera di gran lunga i professionisti. “I suoi studi sono privi di qualsiasi metodo e piuttosto eccentrici” spiega un amico di Watson prima di farglielo conoscere, “ma ha accumulato una massa enorme di cognizioni insolite che lascerebbero a bocca aperta i suoi professori... Dio solo sa cosa studia.”
L'ambizione di Sherlock Holmes, uomo peraltro piuttosto scostante e suscettibile agli sbalzi di umore, è così sbandierata da renderlo agli occhi dell'amico come arrogante e pomposo. Così infatti il detective parla di se: “Ho tutte le qualità per diventare famoso. Non esiste e non è mai esistito qualcuno che abbia dedicato tanto studio e tanto talento naturale alla scoperta del crimine quanto ne ho dedicato io.”
Doyle tratteggia così i caratteri di un personaggio destinato a ricomparire di nuovo sulla carta stampata dove, tuttavia, farà ritorno solo tre anni dopo con Il Segno dei Quattro. L'inizio della leggenda è così appena accennato...

Un giovane Arthur C. Doyle.

Asseriva di esser in grado di intuire i pensieri più reconditi delle persone da una fuggevole espressione, dalla contrazione di un muscolo, da un'occhiata. Secondo lui, era impossibile fingere in presenza di chi fosse addestrato all'osservazione e all'analisi. Al non addetto ai lavori i suoi risultati sarebbero apparsi talmente sorprendenti che lo avrebbero preso per uno stregone.

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