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giovedì 3 marzo 2016

Recensioni Cinematografiche: LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT di Gabriele Mainetti



Produzione: Goon Film & Rai Cinema.
Soggetto: Nicola Guaglianone.
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone & Roberto Marchionni (Menotti).
Regia: Gabriele Mainetti.
Montaggio: Andrea Maguolo.
Fotografia: Michele D'Attanasio.
Colonna Sonora: Michele Braga & Gabriele Mainetti.
Interpreti Principali: Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Antonia Truppo, Stefano Ambrogi.
Durata: 118 min.

Commento Matteo Mancini.

Applauso a Mainetti e a chi ha creduto nel progetto. In Italia, per ragioni becere, veder portare a termine un film di questo genere (B-Movie girato con i crismi italiani piuttosto che americani, infatti non è political correct) è diventato un'impresa eroica, eppure un tempo era prerogativa del nostro bel paese esportare il cinema di genere arrivando persino a ispirare il cinema hollywoodiano e, talvolta, batterlo al botteghino. Tutto questo avveniva pur dovendo agire con capitali ridotti, tempi tecnici brevi e soprattutto attaccati di continuo da un atteggiamento assurdo (unici al mondo in questo) dei critici più legati alle correnti politiche che a un attento esame di costumi, tecniche di ripresa e linguaggio cinematografico. Uno stuolo di personaggi che traevano piacere nell'affossare registi, nel distruggere le opere senza andare a ricercare e valorizzare gli aspetti positivi, senza promuovere all'estero un prodotto griffato "Italia" e tutto questo per il gusto di penalizzare gli altri, a favore dell'importazione o di film di nicchia, magari anche apprezzabili, ma di certo incapaci di divertire gli occhi e di portare lo spettatore a dire: "come diavolo l'hanno girata questa sequenza...? Pazzesca!" Un modo di lavorare che va oltre le forme, che si distingue in modo netto da un approccio documentaristico finalizzato alla riproposizione di storie che potrebbero concretamente verificarsi nella vita di tutti giorni (prerogativa tipica, a esempio, del neorealismo). Una specie di rapporto scrittore-giornalista caratterizzato dalla ricerca della creazione, nel primo caso, e dalla descrizione di fatti asettici nel secondo. Il cinema, pur dovendo seguire certe regole, è sospensione dalla realtà, ricerca del c.d. sense of wonder, giocando anche sulle estremizzazioni, pur se calibrate, cercando di studiare le inquadrature, di meravigliare chi guarda e di dosare bene effetti speciali e gusto per l'immagine. Tutto questo è fondamentale per il cinema di genere, che è cosa assai diversa da un'impronta più vicina al teatro o da un taglio castrante che, prima di dare buona una sequenza, fa lo screening tra realtà e quanto ammirato sugli schermi per poi dare l'okay solo in caso di risposta affermativa tra le due verità (la percettibile con i cinque sensi e quella percettibile con due). Aspetti che certi critici con la puzza sotto il naso (senso facente parte solo della realtà fenomenica, a parte certi cinema americani) si ostinano a non voler fare e il risultato è evidente agli occhi di tutti: LA MORTE DEL CINEMA ITALIANO DI GENERE, con maestri come Michele Soavi costretti a fare le fiction tv (peraltro gradevoli) e altri costretti a ritirarsi per fortuna, poi, rivalutati da personaggi come Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, Eli Roth che han portato persone che, quindici anni fa (quando il sottoscritto e qualche altro appassionato valorizzavano certe pellicole) sparavano a zero, a valutare sotto un'altra lente quelle pellicole: la lente della moda del periodo, purtroppo (altrimenti saprebbero valutare un film con criteri lineari), una luce deformante comunque indispensabile per portare nuove leve a riscoprire quello che era il marchio del cinema di genere italiano.

Detto questo in premessa, andiamo a vedere nel dettaglio questo Lo Chiamavano Jeeg Robot. Prodotto con un budget minimale, sotto ai due milioni di euro, dalla neonata Goon Films di Mainetti e dalla Rai Cinema. Una somma bassa per un fantasy con venature horror (non perché spaventi, piuttosto per il tocco gore), ma che diviene importante se si considera che parte dei capitali arrivano dal regista stesso, costretto a scommettere di tasca propria pur essendo, a tutti gli effetti, un debuttante. Non più giovanissimo, ormai prossimo a spegnere quaranta candeline sulla torta, ma costretto, anche per questo, ad azzardare il grande passo puntando sul proprio talento. Attore prima di belle speranze, con ruoli di rilievo in commedie, comici e serial televisivi, poi regista apprezzato nell'ambiente, meno dal pubblico, grazie a corti come Tiger Boy (2012), premiato con il Nastro d'Argento e inserito nel lotto dei cortometraggi da cui stilare le nomination all'Oscar, o il meno qualitativo Basette (2008) comunque nominato per il Nastro d'Argento. Esperienze, queste, precedute da altri cortometraggi per un arco temporale di oltre dodici anni, racimolando soldi con interpretazioni attoriali e una dozzina di regie di episodi di famose serie televisive. Tempo utile a crescere, ma anche sperperio di energie pazzesco se si considera che un tempo, a quarant'anni, certi registi italiani avevano già plasmato buona parte della loro filmografia.
Appassionato del mondo dei manga e dei cartoon, Mainetti persevera nel suo cammino concependo col suo soggettista di fiducia la scheletratura de Lo Chiamavano Jeeg Robot, forse aiutato dal buon esito di Tiger Boy. Ancora una volta, riprende l'idea iniziale di un classico dei cartoni giapponesi (alla fine comparirà la maschera a maglia di Jeeg Robot), come già avvenuto in Tiger Boy, dove vi era un protagonista bambino fissato su un wrestler romano dal volto celato da una maschera di tigre (evidenti riferimenti a L'Uomo Tigre). Così Nicola Guaglianone, questo il nome del soggettista, un romano classe 1973 cresciuto e formatosi alla corte di Mainetti ma anche di alcuni serial tv, mantiene l'impronta legata all'infanzia e al mondo perduto degli anni '80 inserendola in un contesto da fantasy stile Marvel, ma con toni e personaggi alla Monnezza. Così la storia viene ambientata a Roma, nel mondo delinquenziale e coatto che ricorda un po' i film italiani anni '70 e non disdegna il ricorso alla violenza e allo squallido (le scenografie sono squallidissime, a parte una sequenza in un pub che richiama un po' quella di Arriverderci Amore Ciao di Soavi), riuscendo tuttavia a donare a tale contesto un tocco poetico che, in più punti, sfiora le corde della sensibilità in chi guarda per poi cambiare registro e passare dalla poesia allo squallore (voluto) e viceversa. Un effetto assimilabile a un mix di dolcezza e crudeltà che rendono molto particolare questa pellicola, impregnandola di un sottostrato di originalità che, in tempo di remake e copie, è oro colato. Merito soprattutto della caratterizzazione dei personaggi, a cui mette mano anche Menotti, al secolo Roberto Marchionni, conosciuto fumettista sotto contratto della Black Velvet e che arriva dal serial 7 Vite, probabilmente su suggerimento dello stesso Guaglianone che in quel serial ha anch'esso messo mano.


La storia propone la figura, apparentemente classica, dello sfigato (qua un delinquente) che per caso finisce per acquisire i superpoteri (finisce immerso in un barile contenente liquido radioattivo) dopo aver contratto una specie di febbre con relativa reazione corporea. Segue la presa di coscienza di questi poteri (invulnerabilità a cadute, colpi di proiettili e cazzotti, ma anche una potenza fisica alla Hulk) e da qui la decisione di sfruttarli per le proprie esigenze, un po' come avveniva all'inizio di Spiderman. A differenza però dei personaggi Marvel, Guaglianone e Menotti mettono in scena un vero e proprio coatto, che ha collezioni di video porno, sradica bancomat, assalta furgoni portavalori e poco gli importa di salvare o proteggere i più deboli, almeno come vocazione immediata. Non ha un vero costume, va in giro con scarpe di camoscio, una tuta lercia e una specie di benda che usa per tapparsi la bocca come un ninja de "noi artri".
Anche il taglio è da vietato ai minori di 14 anni piuttosto che aperto ai ragazzini e questo nonostante il fuorviante titolo che strizza un po' l'occhio a Jeeg Robot e a Lo Chiamavano Bulldozer, avendo poi poco o nulla da spartire con entrambi. A dare corpo a questo supereroe c'è un Claudio Santamaria costretto a salire di peso, più sottotono del solito, penso all'affascinante bandito de Romanzo Criminale (2005) di Placido o allo spiritato Cartaio (2004) nell'omonimo film di Dario Argento, ma comunque funzionale alla causa, anche se poteva fare meglio. Il suo è un personaggio che vive per inerzia, non ha interessi, non ha gusti (se non una passione smodata per i budini), non legge giornali ne guarda la tv (a parte una bruttina pubblicita a QVC con l'americanona biondona che vende attrezzi per la ginnastica). Lo vediamo, all'epilogo, scontrarsi con il cattivone di turno, il sopra le righe Luca Marinelli, altro coattissimo (si inchiappetta pure un viados, giusto per far capire l'atmosfera coatta che pervade questa pellicola) costruito vagamente a somiglianza del joker e del drogatissimo poliziotto di Leon. Attore classe 1984, protagonista nel famoso La Solitudine dei Numeri Primi (2010) e presente ne La Grande Bellezza (2013) di Sorrentino, Marinelli rende schizoide il suo personaggio, un malvivente romano in combutta con la camorra che cerca di farsi strada nella malvivenza locale, col sogno di emulare i boss di un'eventuale e nuova banda della magliana. Un personaggio narcisista che ama lo spettacolo, con esperienze nei reality show e che ama il canto, ma non ha alcun principio etico. Calpesta patti, amicizie, persino i soldi. Quello che vuole è la notorietà e il rispetto di chi lo ha sempre calpestato. I due si troveranno a scontrarsi, ma non in modo contrapposto come potrebbe verificarsi in un film della Marvel, e cioè uno a incarnare il bene e l'altro il male. No, niente di questo. I due entreranno in competizione, ma mentre il cattivo è un vero delinquente che va in giro armato fino ai denti, l'altro è un perfetto idiota dal punto di vista delinquenziale pur dotato di una forza sovraumana. "Ci vorrebbe uno così, magari ad aveccelo in batteria" commenta l'antagonista nel vederlo all'opera immortalato dalle telecamere di una banca. Una competizione a cui si unirà anche una banda di napoletani, capeggiati da una donna, un'imbruttita e burbera Antonia Truppo. Quest'ultima, pur provenendo da un film che si chiama La Kryptonite nella Borsa (2011), ben poco potrà fare contro i due criminali (anche il personaggio di Marinelli finirà, allo stesso modo del protagonista, per acquisire i superpoteri), del resto Superman era altra cosa pur essendo presente una sequenza che ricorda l'epilogo di Superman II (stritolamento della mano di Terence Stamp) e certe sequenze di Batman di Burton (nel balletto Marinelli è Nicholson, impossibile pensare diversamente).

In questo contesto delinquenziale, dove non si lesinano rapporti sessuali per nulla poetici, pestaggi, sparatorie, sangue e assassinii, si inserisce l'innovativa figura di una giovane che funge da correttivo all'apatia del protagonista. E' lei a chiamarlo Jeeg Robot. "Lo sapevo io, te sei Hiroshi Shiba! Ti puoi trasforma' in un Jeeg! Ma che pure te c'hai la spada alata?" gli dice quando lo vede per la prima volta in azione. E' una giovane affetta da disturbi psichiatrici, fissata col cartoon giapponese, e con un passato fatto di abusi e traumi che la rendono involontariamente provocante (Mainetti piazza un topless che mette in imbarazzo il protagonista). Tra i due cresce un rapporto che ricorda molto da vicino quello tra Leon e Matilda nel famoso film di Luc Besson. Il personaggio di Santamaria è un asociale, come e più di Leon (che almeno aveva un mentore), non ha mai avuto rapporti con donne e finisce per prendere cura di Alessia (questo il nome della ragazza) perché anche a lei viene ucciso il padre e perché viene molestata dalla banda dell'antagonista (Marinelli dice di essersi ispirato al Buffalo Bill de Il Silenzio degli Innocenti, a me sembra invece più in sintonia con l'Oldman di Leon, non certo per chiamare in causa l'Oldboy di fumettistica memoria, ma per gli improvvisi scatti d'umore e lo spiccato gusto per la musica, nella fattispecie pop, anziché classica). Il rapporto tra i due ha del malato, ma anche  e soprattutto del poetico (bellissima e dolce la sequenza al luna park che cela qualcosa del paterno più che dell'amore tra fidanzati). Sono due bambini cresciuti a loro modo poco, come se un qualcosa avesse spezzato il loro regolare sviluppo mentale. Vederli insieme ha dell'esilarante, la scena al supermercato con la ragazza che afferma di conoscere i passanti e ne da un immagine e ricostruzione assurda ha del grottesco assoluto. Ilenia Pastorelli, è lei a dare corpo alla ragazza, è bravissima, specie se si considera che è al debutto assoluto. Una prova maiuscola la sua, in un ruolo difficile, con un personaggio visionario, sognante, alterato (si veda quando ha una crisi epilettica ricordando stupri passati, spettacolare tocco di regia col volto gigante del robottone proiettato sul muro a simulare infanzia-maturità sessuale) che non distingue tra cartoon e realtà. Fa molta tenerezza, alla luce anche dei traumi subiti (rapporti incestuosi col padre), al punto da rompere la freddezza anche del protagonista che ripete di continuo: "Io non amici... A me non frega niente di nessuno...ma adesso ho te" Di rilievo il cambio di espressione nella sequenza in cui prova il vestito da principessa e inizia a baciare in modo innocente Santamaria, dando l'avvio a una sequenza poetica e romantica che si trasforma però in squallida per l'istinto animale del protagonista che la prende di forza, senza tanti preliminari rompendole quasi il vestito. La Pastorelli è perfetta nel cambio d'espressione, davvero brava, soprattutto nella sequenza successiva quando cammina offesa, come distrutta nell'anima, alla stregua di chi vede il sogno del principe azzurro disintegrarsi e assumere le sembianze del classico bruto che si cela sotto mentite spoglie.

Io solo una cosa voglio sape': Ma te chi cazzo sei...?
Ti ha mozzicato un ragno, un pipistrello,
sei cascato da n'artro pianeta?

Epilogo in stile supereroe cattivo (praticamente una sorta di Joker, con tanto di volto bruciato, capelli caduti e verve ironica nera, spettacolare la sequenza in cui si vendica sui camorristi) vs supereroe buono, con colpi e voli sulla scia della Marvel. Un qualcosa di mai visto in Italia, nello scenario di uno stadio Olimpico che rievoca, pur cambiando il genere e i personaggi, il celebre scontro tra Bruce Lee e Chuck Norris ne L'Urlo di Chen Terrorizza anche l'Occidente (1972). Mainetti gira la sequenza, probabilmente, buttando un occhio a questa pellicola; la lotta infatti è girata all'interno dello stadio, ma nella parte retrostante rispetto al campo di gioco dove è in scena il derby Lazio - Roma (poi va anche al di là). Si tratta di una delle tante sequenze riuscite del film. Mainetti sa girare con i controca', non ha paura di censure (gioiellino, per gli amanti del gore, la testa mozzata che vola nel finale), muove con criterio la macchina da presa e ha gusto per il cinema di genere (terribile la sequenza con uno degli amici dell'antagonista sbranato dai cani fatti sciogliere dallo stesso, come nel prologo de Le Colt Cantarono la Morte... E Fu Tempo di Massacro). Grande ritmo, dunque, per un film che non annoia mai e gira sempre ad alti livelli. Certo, per l'esportazione verrà un po' penalizzato dal doppiaggio, ma andrà all'estero e questo è ciò che conta. La scelta di girarlo in romanaccio è un'arma vincente in Italia, ma non comprensibile fuori i confini nazionali indebolendo non poco la pellicola a livello internazionale. Anche perché sia Santamaria che Marinelli non sono eccezionali, pur non sfigurando (complici le buone caratterizzazioni e l'ottima regia). Grande gusto nella scelta delle canzoni, con uno splendido Latin Lover della Nannini in un assalto a un autoblindo (con i due banditi che si scagliano l'uno contro l'altro per fare il colpo e le guardie giurate che vengono frullate via come stecchini da denti) e una beffarda Ti Stringerò di Nada usata a mo' di presa di giro per la boss di Scampia che viene stretta in un abbraccio che le farà male, dopo che avrà assistito alla morte di tutti i componenti della propria banda, preceduti da un "Ciak, azione" proferito dall'antagonista in camera di ripresa. Non di poco conto il ruolo massmediatico che gira attorno al narrato e che passa dai canali giornalistici classici a quelli popolari, fatti di video internet, riprese con cellulari e visualizzazioni di video che spingono lo stesso antagonista a filmarsi in azione per poi verificare lo share su internet delle proprie imprese. E' il progresso demenziale che avanza, purtroppo anche e soprattutto nella realtà fenomenica.
Probabile un sequel, francamente spero di vedere Mainetti impegnato in un nuovo progetto, questo è già perfetto così, insistere vorrebbe dire rischiare tutto perché la carta della novità è già stata giocata. Vediamo come si comporterà col passare del tempo, sicuramente può definirsi tra i cinque migliori film di genere italiano del nuovo secolo, anche perché regge negli effetti al confronto di Hollywood. Tamarrissimo.

Chiusura con una nota personale, caratterizzata, sotto, dalla foto del mio titolo d'ingresso nella sala, con due ragazzotti che, due file più avanti, hanno limonato per tutto il tempo e questo non credo certo perché alla disperata ricerca di contrastare stimoli suscitati dalla visione del film. Questo infatti sortisce un effetto  del tutto contrario a quello proprio di certe pellicole che, in assenza di certe pertinenze, inducono a maledire chi ha posto all'altezza dei bagni la scritta DIVIETO DI BALNEAZIONE! Un pericolo da cui ci si può salvare, forse, solo in un certo modo: limonando i liquidi!



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