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venerdì 30 marzo 2012

Spaghetti Western VOL.1 di Matteo Mancini: Coming Soon



Premessa da SPAGHETTI WESTERN VOL. 1 di MATTEO MANCINI di prossima uscita per l'editore il foglio.

Sono qua a presentarvi in esclusiva la mia premessa al mio primo volume (di tre) dedicato allo spaghetti western in particolare e, più in generale, al cinema bis nostrano. Il primo volume, dovrebbe andare in vendita a 18 euro per IL FOGLIO LETTERARIO di Gordiano Lupi, sarà composto da poco meno di 400 pagine e tratterà i western usciti nelle sale dal 1962 al 1966 (con tanto di commenti personali bilanciati e contrapposti a quelli della critica generale, della critica di settore e dei blogger internazionali più appassionati) oltre a una lunga premessa in cui si parlerà del Wild West Show di Buffalo Bill, dell'ostracismo fascista ai film americani, all'arrivo di questi ultimi dopo la seconda guerra mondiale e quindi dei fumetti western, del neorealismo, dei proto-western, dei western di ambientazione nazionale, degli zorro movie e infine della nascista dello spaghetti western.

Eccovi la premessa,

Spaghetti Western è un progetto concepito per caso, durante il Pisa Book Festival 2010, in occasione di una chiacchierata tra me e l'amico Gordiano Lupi. Il discorso cadde dalla narrativa fantastica (passione che ci accomuna) alla cinematografia di genere. Ricordo che Gordiano stava curando un interessante progetto sull'horror italiano (uscito poi col titolo “Storia del cinema horror italiano” n.d.r.) costituito da molteplici volumi. Tra un discorso e l'altro, davanti alla cospicua produzione di saggi cinematografici de Il Foglio Letterario, mi venne di chiedere come mai non vi fosse neppure un libro su quello che io reputo, per la sua storia e l'influenza su tutti gli altri generi di intrattenimento, il genere principe: lo spaghetti-western.
Gordiano prese la palla al balzo e, senza aggiungere altro, mi rispose: “visto che scrivi bene e ti piace il cinema italiano di genere, perché non lo scrivi te, per la mia casa editrice, un libro sul western?” Sulle ali dell'entusiasmo accettai senza tentennamenti, pur sapendo che mi avrebbe atteso un lavoro lento e impegnativo poiché, come insegna Lee Van Cleef nel film I giorni dell'ira, chi non accetta una sfida l'ha già perduta, e l'ha perduta nel modo peggiore. E così eccomi qua, lanciato al galoppo verso un mucchio selvaggio di film che mi ha tenuto impegnato per più di un anno.

D'accordo con l'editore ho deciso di dar vita a un progetto che non avesse ambizioni di completezza (poi è finita che ho recuperato e parlato di quasi tutti i film del periodo). A tale scopo, infatti, ci sono già gli importanti volumi di Marco Giusti (Dizionario del Western all'Italiana) e del recentemente scomparso Antonio Bruschini (Western all'Italiana), due autentiche bibbie in fatto di western. Il mio obiettivo era, ed è tuttora, quello di avvicinare un pubblico giovane a un genere che, al giorno d'oggi, (insieme al peplum e al c.d. macaroni combat) è il più sconosciuto e sottovalutato della cinematografia italiana. Un genere che ha poco da spartire con lo stereotipo del western che aleggia nella mente delle persone ovvero quello dei western americani con John Wayne fortemente connessi all'epopea dei cowboy e al loro rapporto conflittuale con gli indiani ovvero quello degli sceriffi integerrimi legati ai valori degni di una società che si rispetti.

Il western italiano è altro, ed è l'imprescindibile punto di partenza per il thriller e soprattutto per il poliziesco all'italiana, specialmente per la tipologia di regia, fatta di primi piani, zoom, dinamismi e cura dei particolari, senza disdegnare bizzarrie e sperimentazioni con giochi di messa a fuoco. Inoltre è un genere in cui, seppur con ruoli diversi, si sono confrontati quasi tutti i registi degli anni '60, '70 e '80, tra i quali i maestri del thriller Dario Argento e Sergio Martino, del gotico Mario Bava, della sci-fi Antonio Margheriti, del gore Lucio Fulci, dell'erotico naif Tinto Brass e di quello più spinto Joe D'Amato, del poliziesco Enzo G. Castellari, del cinema di guerra italiano poi denominato dagli americani macaroni combat Umberto Lenzi, del noir Fernando Di Leo e del cinema impegnato con autori quali Pasolini, Lizzani e moltissimi altri. È anche il cinema che ha consacrato star hollywoodiane come Clint Eastwood e Burt Reynolds all'epoca sconosciute, o ne ha rivitalizzate altre cadute nell'oblio come Lee Van Cleef ovvero precedentemente confinate nel cinema impegnato come Tomas Milian, per non parlare di tutti quei personaggi come Bud Spencer, Terence Hill, Franco Nero, Giuliano Gemma, Gianni Garko nati proprio grazie al genere.

Così ho cercato di tracciare un filo conduttore che potesse fungere da bussola orientativa in modo da far emergere la genesi e la morte di un genere che ha saputo evolvere di anno in anno in qualcosa di diverso, dando vita a una sterminata serie di sottogeneri, alla maniera di un sole che spunta dal monte e variando la propria intensità taglia il cielo prima di spegnersi nell'oceano del ricordo.

L'alba è stata caratterizzata dai western filo hollywoodiani, cioè basati sul mito del lontano west e sull'importanza dei valori della giustizia e della famiglia, seppur miscelati da una malinconia aliena al cinema d'oltreoceano. È stato però un veloce lampo, cancellato dall'intenso bagliore del cinema di Sergio Leone fatto di violenza e spavalderia in cui furoreggiavano bounty killer e vendicatori solitari. Storie con personaggi ambigui, non stereotipati, incentrate sulla vendetta del protagonista a danno di gruppi di soggetti colpevoli di qualche malefatta. Potremmo senz'altro definirli gli antenati dei film di registi come Quentin Tarantino o Robert Rodriguez. E poi arrivarono gli adattamenti di soggetti estrapolati dalla letteratura classica e ispirati dalla penna di William Shakespeare, Omero, Jules Verne, Alexandre Dumas e via dicendo.

Il successo al botteghino, improvviso, imprevedibile e crescente di questo tipo di film, portò produttori e registi (compresi quelli impegnati), provenienti da ogni settore, a misurarsi col western. Così, a partire dal '66, arrivarono i western gotici dal taglio horror (il riferimento va alle ghost stories) o giallo, ma soprattutto irruppero i western d'autore, taluni bizzarrissimi e sperimentali, altri simbolici, impreziositi da richiami politici che evolveranno presto nel tortilla-western ovvero il western incentrato sulla rivoluzione messicana e sullo sfruttamento dei peones. Questi ultimi saranno film che cavalcheranno il periodo delle manifestazioni studentesche del '68 per trattare metaforicamente problematiche contemporanee trasponendole nel lontano far west.

Il biennio '68-'69 segnerà l'apice del genere e il suo inevitabile declino a causa del proliferare di film l'uno fotocopia dell'altro, ma soprattutto a causa dell'affermarsi del poliziottesco, del thriller e dell'horror. Si cercherà di arginare il trend negativo proponendo qualcosa di nuovo con i western comici (i c.d. fagioli westerm), le saghe più o meno apocrife (e spesso scarse) dei vari Django, Sartana, Ringo, Spirito Santo, Provvidenza, giungendo infine alle contaminazioni folli tra il western e il gong fu (cinema sulle arti marziali in netta ascesa grazie all'enorme successo mondiale delle pellicole con Bruce Lee) che daranno vita agli spaghetti kung fu o i western con ambientazioni esotiche (per lo più Brasile e Giappone, addirittura con Get Mean nel Medioevo).
Da qui al western crepuscolare il passo sarà breve, e così si registreranno gli ultimi colpi, peraltro tutt'altro che fiacchi, con pellicole tristi, caratterizzate da scenografie decadenti, avvolte dalla nebbia (anche a causa del declino dei vari studios, sempre più trasandati e quindi da sfumare con escamotage artigianali), dove si rievocherà il western che fu con un'atmosfera agrodolce, cupa. Ormai però si respirerà a pieni polmoni la fine di un genere che aveva fatto la fortuna di molti, un po' come quando si osserva il tramonto del sole in riva al mare col cuore colmo di malinconia per una bella giornata appena evaporata.

Nel 1978 ci sarà addirittura un tentativo della Variety Film, sulla scia dei numeri a sfondo fantastico/paranormale del fumetto Tex, di confezionare un horror puro con zombie, splatter e un'ambientazione western che, purtroppo, non andrà in porto a causa dei dubbi di credibilità del soggetto sollevati dallo sceneggiatore Dardano Sacchetti. Sacchetti suggerirà una piega avventurosa, gettando così le basi per l'horror fulciano Zombi 2 e l'abbandono dell'idea iniziale.
Negli anni '80, a genere morto, si tenterà di riaccendere il sole ormai spento chiamando in causa gli eroi del genere (il famoso Tex dei fumetti della Bonelli e il vero e originale Django) personificati dagli attori simbolo Giuliano Gemma e Franco Nero, ma il tentativo fallirà decretando la definitiva eclissi dello spaghetti-western.

L'importanza del genere resta comunque monumentale. Quentin Tarantino,a ragione, ha detto che “senza gli spaghetti western non esisterebbe una buona parte del cinema italiano e anche Hollywood non sarebbe la stessa.” Il western all'italiana ha infatti insegnato agli americani che i generi sono meri contenitori, nella fattispecie, legati a un'ambientazione storica ben precisa, ma svincolati da tutto il resto. Non è corretto, né intelligente, pensare a una sola tipologia di racconto da inserire in un contesto definito (come invece si erano fossilizzati a fare gli americani prima dell'arrivo degli spaghetti-western). Il cinema non deve esser interpretato come rappresentazione della realtà, bensì quale strumento con elementi artistici con cui raccontare storie finalizzate all'intrattenimento.

Ecco che il western con i film italiani diviene un vero e proprio campo che parte da un'idea iniziale fissa per poi spaziare liberamente.
I registi e gli sceneggiatori italiani cercavano quasi sempre di divertirsi nel realizzare i loro film e così facendo trasmettevano la loro passione al pubblico. Erano focosi, artigianali, giravano spesso senza copioni con grande senso del ritmo, litigando spesso con gli attori e arrivando a comportamenti che visti dall'esterno potrebbero sembrare folli. Cose che i registi americani, più legati alla procedura e più rigidi, non si sarebbero mai sognati di fare. Moltissimi sono gli aneddoti di scazzottate tra registi e attori, liti varie con i produttori e stranezze di ogni sorta che in America mai si sarebbero potute concepire. I prodotti che ne derivavano riflettevano tali atteggiamenti, essendo spesso fuori dagli schemi, eccessivi, spettacolari oltre ogni concezione realistica e alla continua ricerca delle inquadrature d'effetto, traducendo di fatto su pellicola le stigmate proprie di chi fa del c.d. genio e sregolatezza una regola di vita. Pellicole benedette da quello che gli americani definiscono il sense of wonder (il gusto per il meraviglioso) ovvero da una sfumatura fantastica, epica, che richiede inevitabilmente la sospensione dalla realtà da parte dello spettatore. Quest'ultimo deve essere educato alla visione dei film e deve imparare a leggere tra le righe in ciò che vede, così come dovrebbe imparare a fare nella vita di tutti i giorni decriptando i vari comportamenti delle persone. Motivi questi spesso non compresi dai critici con la puzza sotto il naso che arrivano poi a scrivere quelle che io ritengo delle idiozie. Sul Morandini, infatti, capita di leggere che gli spaghetti-western da salvare sarebbero solo una trentina su circa quattrocento prodotti. Per tali ragioni gli americani e i detrattori definivano, molti lo fanno tuttora, questo cinema (ma anche la sci-fi, l'horror, il thriller, il poliziottesco e il macaroni combat) di serie B. Al riguardo mi piace citare il regista Enzo G. Castellari il quale in un'intervista in cui gli veniva chiesto che cosa si volesse indicare con la classificazione “B-MOVIE”, dopo aver detto di non apprezzare la definizione di cinema di genere (che vuol dire cinema di genere? I miei film sono visti e venduti in tutto il mondo, con grande successo di incassi e di pubblico. Se cinema di genere vuol dire il cinema che piace internazionalmente, allora non sono molti i film di genere) disse: B stava per Beautiful! Una risposta che mandò in visibilio sia Quentin Tarantino che Joe Dante, entrambi presenti al fatto.

A Hollywood hanno appreso presto queste lezioni, pur continuando a mantenere un taglio professionale da catena di montaggio piuttosto che artigianale, e, sulla scia del nostro cinema, hanno cominciato a produrre opere ibride anche nel western come dimostrano Lo Straniero senza Nome (1973) di Clint Eastwood, Il Mondo dei Robot (1973) di Michael Crichton, Sfida a White Buffalo (1977) di J. Lee Thompson, Ritorno al Futuro 3 (1990) di Robert Zemeckis, L'Insaziabile (1999) di Antonia Bird, Dal Tramonto all'Alba 3 (2000) di P.J. Pesce e il recentissimo e più bizzarro Cowboys & Aliens (2011) di John Favreau, mischiando quindi il western rispettivamente con la ghost story, la fantascienza, il monster movie sulla scia di Moby Dick inserendo un gigantesco bufalo bianco al posto della balena, il fantasy, l'horror cannibalico, lo splatter erotico con i vampiri e infine l'incontro tra cowboy ed extraterrestri.

Dunque, come si può capire già da questa premessa, lo spaghetti-western non è mai stato un qualcosa di monocorde ma un contenitore, in perenne evoluzione, funzionale a qualunque sorta di sottogenere che deve esser riscoperto dai giovani senza alcun timore di annoiarsi poiché variegato e ricco di soluzioni.

Con questo saggio, strutturato in tre volumi, si tenterà, senza ambizioni di critica tecnica (perché chi scrive è un appassionato di cinema e non un critico), di tracciare un percorso progressivo destinato a guidare il lettore/spettatore in un mondo sterminato. Saranno proposti i film fondamentali e più particolari al fine di promuovere un genere che annovera pellicole tra le migliori mai prodotte in Italia, evitando di abbandonare il potenziale spettatore in un oceano di titoli che lo porterebbero inevitabilmente alla deriva dissuadendolo dalla navigazione.

L'opera mi permette infine di presentare nel dettaglio, seppur sinteticamente, i vari cast tecnici e artistici poiché è bene che il pubblico si abitui a pensare a un film non come il frutto di un singolo individuo, come invece mi capita di sentir dire in giro tra le persone comuni, bensì quale opera collettiva. Confezionare una pellicola è un lavoro di squadra e allora è giusto che tutti abbiano i riconoscimenti che meritano strappando via quel maledetto sipario che nasconde ingenerosamente coloro che operano dietro le quinte. Buona lettura.

Matteo Mancini
Aprile 2012

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