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venerdì 28 gennaio 2011

Recensione Narrativa: L'orrore del Buio (AA.VV.)


L’ORRORE DEL BUIO

Autore: AA. VV.

Curatore: Karl Edward Wagner

Anno di uscita: 1985

Casa editrice: Newton

Pagine: 233


Commento

Karl Edward Wagner, noto e validissimo scrittore horror con la passione per Robert E. Howard, si cala nell’infausto ruolo di selezionatore di racconti. Nell’occasione raccoglie quelli che ritiene i migliori horror dell’annata 1984, a prescindere da una qualsiasi comunanza di argomenti o di stile.

Abbiamo infatti testi splatter (pochi per la verità), altri di atmosfera e persino alcuni comico/grotteschi.Vengono così proposti diciotto racconti di diciassette autori diversi (due testi sono di John Gordon), alcuni dei quali famosissimi come Stephen King e Ramsey Campbell, altri piuttosto noti e spesso presenti in questo tipo di antologie come Dennis Etchison, David J. Schow e Charles Grant, infine un trio di scrittori secondari (credo che non si offendi nessuno se si definiscono in tal modo scrittori del calibro di Gardner Dozois, David Langford e John Gordon) e un ampio gruppo di sconosciuti molti dei quali con una sola pubblicazione tradotta in italiano (Daniel W. Barber, Fred Chappell, Jovan Panich, Vincent McHardy, John Brizzolara, Leslie Halliwell, Charles Wagner, Roger Johnson, James Hamesath).

Ne deriva così un insieme molto eterogeneo che susciterà la curiosità del lettore più appassionato e sempre bramoso di conoscere nuove penne. Purtroppo lo spirito magico che governa la speranza inizia presto a evaporare.Karl E. Wagner osa nel mettere in campo un manipolo di giovani scommesse, forse perché limitato da un budget che non gli permetteva di pescare tra gli scrittori di maggior blasone, ma ne viene fuori un’antologia che perde l’azzardo del suo curatore. Al vecchio Stephen King, con “La scorciatoia della signora Todd” (inserito anche nell’antologia “Scheletri”), tocca il compito di “tirare la carretta” con uno dei racconti più qualitativi dell’antologia (ma la concorrenza, come abbiamo anticipato, era tutt’altro che competitiva). King propone una storia che rievoca ricordi lovecraftiani con una signora (la Todd di cui al titolo) specializzata nel percorrere delle scorciatoie lungo sentieri bizzarri che sfuggono alle regole della realtà e che le permettono di ringiovanire.

Il racconto di King, pur essendo tra i migliori, è “superato” da l’unico vero gioiello (seppur humor) dell’intera raccolta, cioè “La cosa nella camera da letto” per la firma del gallese David Langford. Vincitore di vari Premi Hugo (principale Premio internazionale di narrativa fantascientifica), Langford propone uno dei suoi classici racconti parodistici. “La cosa nella camera da letto” infatti è una folle e divertentissima parodia delle detective story con indagatore dell’occulto protagonista. Nella fattispecie viene messo in scena un indagatore che, all’interno di un bar, racconta agli astanti una delle sue ultime avventure. Ingaggiato per risolvere l’enigma di un fantasma che funesta le notti delle clienti di un albergo, il detective si troverà costretto a procurarsi vestiti da donna e a truccarsi in modo consono per stimolare la presenza dell’ectoplasma che pare manifestarsi solo in presenza di donne attraenti. Il “nostro”, però, scoprirà, a sue spese, di avere a che fare non con lo spirito di un defunto, ma con una parte di corpo che un cliente ha perso all’interno della stanza, perché rimasto incastrato in una porta; una parte di corpo che si muove come un verme e che pare fluttuare per la stanza in cerca di orifizi in cui rifugiarsi. Davvero una delle storie più folli che mi sia capitato di leggere…

Si distingue positivamente anche “Non crescere mai” di John Gordon, una storia più tragica che horror in cui un bambino, orfano di padre (che si è suicidato per i continui dissidi con la moglie) e con una madre che si disinteressa completamente di lui, si confessa davanti alla tomba di una bambina morta cento anni prima, parlando dei suoi problemi in famiglia e svelandole di aver ingurgitato una dose letale di barbiturici.

Leggermente inferiori, ma comunque in grado di offrire una lettura più che gradevole, seppur tutt’altro che trascendentale, “Zona di confine”, “Fari mortali” e “Lo spaventapasseri” tutti e tre di autori sconosciuti e cioè John Brizzolara, Charles Wagner (per questi due si tratta del loro unico racconto tradotto in lingua italiana) e Roger Johnson.

Il primo, forse il migliore della terna per la sua capacità di suscitare una crescente tensione, parla di una pattuglia della polizia di frontiera americana alle prese con strane presenze nella notte di Ognissanti. I due agenti sono convinti di veder fuggire tra le rocce dei canyon centinaia di clandestini; in realtà, una volta illuminata a dovere l’aria, scopriranno di aver avuto davanti solo arbusti secchi o forse la realtà era un’altra e si erano trovati sommersi in un gruppo di fantasmi di uomini morti nel tentativo di varcare la frontiera…

Sulla falsa riga di “Zona di confine” è “Fari Mortali”. Il racconto di Wagner (nessuna parentela con il curatore), come quello di Brizzolara, è ambientato di notte e ripropone un’ambientazione road movie con l’inserimento di fantasmi che si aggirano sulla Statale. Nella fattispecie abbiamo due fanali abbaglianti, posti su un auto invisibile, che seguono le auto che percorrono la Statale 24 per illuminare gli interno degli abitacoli. Si tratta dei fari dell’auto di un ragazzo deceduto qualche anno prima, mentre vagava accecato dall’ira sperando di sorprendere la sua ex ragazza in compagnia del nuovo fidanzato.

Meno votato alla tensione, ma con dei momenti interessanti è il terzo dei racconti sopracitati, il quale porta in causa niente meno che dei monoliti - alla Stonehenge - attorno ai quali graviterebbe una maledizione. Al centro del racconto c’è uno spaventapasseri, piantato proprio vicino alle pietre, che si anima nelle notti di luna piena e carbonizza coloro che decidano di sfidare l’area definita la “Porta dell’inferno”. Un temerario paga a sue spese la sua irriverenza nei confronti dell’occulto.

Interessante sotto il profilo onirico, nonostante sia tutt’altro che originale, è “Storie Misteriose” di Fred Chappell (autore che vanta altre due pubblicazioni con racconti sempre di ispirazione lovecraftiana). Chappell ricrea atmosfere lovecraftiane e lo fa esplicitamente, visto che il suo protagonista viene presentato come un amico di Lovecraft che cerca di escogitare un metodo per spostarsi nello spazio e nel tempo sfruttando le formule matematiche. L’uomo è spinto dal bisogno di gettare luce sulle origini del mondo e sui giganti che dominavano il passato e che potrebbero ritornare in gran segreto per imporre la loro egemonia. Durante l’esperimento, lo scienziato viene catapultato in Antardide, mentre altri, entrati nella sua stanza, assistono sbigottiti ai fatti. A seguito della scoperta lo scienziato muore, mentre Lovecraft e il poeta Crane (confidente dello scienziato) troveranno la morte negli anni successivi braccati da demoni onniscienti liberati a causa dell’esperimento.

Gli altri undici racconti sono l’uno più deludente dell’altro. Si va dal seppur gradevole e kinghiano “La fine del mondo” di James Hamesath, in cui una coppia di coniugi viene importunata dal gestore di un distributore che vuole convincerli a vendere il figlio agli indiani in cambio della pioggia (bello l’epilogo con i genitori che rifiutano ma rimangono coinvolti in un incidente stradale, in cui perde la vita il figlio, subito seguito da un temporale), ai racconti via via sempre più scadenti in quanto noiosi (pallosissimi, scusatemi il termine, i racconti di Grant e Schow su cui tornerò in seguito) oppure pieni zeppi di luoghi comuni (“Mani dalle lunghe dita” di Leslie Halliwell che tratta il tema della stregoneria senza un briciolo di inventiva rispetto alla montagna di racconti ottocenteschi e del primo novecento sul tema) o finalizzati a forzatissimi colpi di scena finali, peraltro intuibili già a metà racconto perché, altrimenti, la storia non avrebbe avuto altra ragione di esistere (“La tigre nella neve” di Daniel Barber o “Il cane” di Gordon o ancora “Invito a cena” di Dozois). La palma del peggiore va, in stretta fotografia col racconto di Schow, ad “Angoscia per i ricordi” di Vincent McHardy che costruisce una storia, peraltro non facile da seguire (perché costruita su una serie di dialoghi, con flashback poco sensati che si inseriscono tra un dialogo e un altro) che crolla nelle ultime quattro righe con un finale posticcio che cozza con tutto il resto.

Una parola più nel dettaglio per i racconti dei blasonati, e a mio avviso un po’ troppo sopravvalutati, Ramsey Campbell, Dennis Etchison, Charles Grant e David J. Schow qui tutti abbondantemente sotto la sufficienza e con racconti decisamente banali.

Campbell presenta una storia, “Attento all’uccellino” (titolo italiano orrendo), che pare esser stata scritta di getto, tanto da non avere una vera e propria fine e risultare piuttosto strampalata. Abbiamo uno scrittore che indaga su degli strani episodi che si verificherebbero all’interno di un pub, fino a scoprire che nei sotterranei del locale ci sono dei morti che si rianimano quando qualcuno legge le scritte slave che tappezzano le mura del bagno pubblico (!?).

Se il racconto di Campbell, nonostante un soggetto debolissimo, rievoca, in alcuni frangenti, le giuste atmosfere, sono noiosi e squilibrati nella gestione i racconti degli altri tre.Etchison (con “Quattro chiacchiere al buio”) ripropone il tema dello scrittore amatoriale in stato di depressione che riceve la visita del suo scrittore preferito. La particolarità del soggetto sta nel fatto che lo scrittore in questione, oltre a essere un abile autore di romanzi, è un assassino di scrittori amatoriali (!?) che cerca di cogliere spunti utili per i suoi romanzi incentrati sull’orrore (soluzione banale).

Troppo diluiti i racconti di Grant (“Hai paura del buio?”) e di Schow (“Prossimamente, in un cinema sotto casa”) che si perdono in trame intricate (soprattutto il secondo) relative a un orrore astratto (quello di Grant può fare effetto su un pubblico di adolescenti, visto che parla di un gruppo di bambini che giocano a nascondino nel buio); il secondo racconto, addirittura, è un autentico delirio con un personaggio che finisce per vedere scarafaggi dappertutto fino all’assurdo epilogo (che di fatto non è un epilogo, perché la storia si tronca d’improvviso senza una fine vera e propria).

In definitiva “L’Orrore del buio” è un’antologia che, a parte qualche racconto, si legge molto bene ed è di pronto e veloce consumo. Purtroppo, ha un taglio troppo commerciale con racconti che, quasi nella loro interezza, gravitano attorno a un orrore che ha in Matheson il suo principale ispiratore (elementi irrazionali e poco verosimili che si inseriscono nel contesto reale, senza alcuna magia esoterica o metaforica).

Non è di sicuro la peggiore antologia che mi sia capitato di leggere, ma per essere un’opera che ambisce a raccogliere i migliori racconti horror scritti nel 1984 mi sembra che il risultato finale sia piuttosto deludente. Di sicuro fiacche le storie presentate dagli scrittori di maggior grido (a parte King, gli altri crollano). Voto: 5+

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